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Il paradosso dell’accoglienza selettiva in Polonia

Rifugiati Ucraina Polonia ANSA

A oggi sono oltre 5 milioni i rifugiati dall’Ucraina che, dal 24 febbraio, hanno attraversato i paesi vicini in cerca di sicurezza. Di questi, quasi 6 su 10 sono fuggiti in Polonia. Il Paese, dipinto come campione della solidarietà europea, ha ricevuto il plauso anche dell’Agenzia ONU per i rifugiati.

In questa situazione, però, c’è un paradosso. A pochi chilometri di distanza, dove la Polonia confina con la Bielorussia, ci sono altri profughi che dalle stesse autorità polacche vengono brutalmente respinti. E chi cerca di aiutare queste persone rischia l’arresto.

La situazione sta diventando sempre più difficile. Il Governo e le autorità sostengono che noi, gli attivisti, stiamo favorendo l’immigrazione clandestina, ma è un’affermazione assurda, non abbiamo mai fatto nulla di tutto ciò. La situazione è questa: le persone che attraversano il confine con la Bielorussia rischiano la vita. E questa è responsabilità sia delle autorità bielorusse che di quelle polacche che non offrono nemmeno un aiuto medico umanitario di base e non consentono a queste persone di fare richiesta regolare di asilo. Queste persone sono intrappolate, bloccate tra il confine bielorusso e quello polacco. Non possono tornare a Minsk perché le autorità bielorusse non glielo permettono e trattano i rifugiati in modo violento: li picchiano, li minacciano con le armi e li fanno attaccare dai cani. Ci sono stati riferiti anche stupri. Quindi queste persone non possono tornare in Bielorussia e sono costretti dalla polizia locale ad attraversare il confine con la Polonia. Ma se riescono a farlo sono bloccati dalle guardie di confine polacche e vengono rimandati indietro“.

La testimonianza è quella di Alexsandra Chrzanowska, attivista dell’Associazione per un intervento legale, che da anni si occupa di fornire assistenza legale e psicologica a chi chiede asilo in Polonia. Chrzanowska, come tanti altri attivisti, contesta duramente la posizione del Governo del Paese che, da alcuni mesi, è anche impegnato nella costruzione di un muro al confine con la Bielorussia.

Si tratta di una forma di “razzismo istituzionale”. Il Governo polacco ha detto chiaramente che fa una distinzione tra i profughi. Le autorità ritengono che i rifugiati ucraini sono brave persone e veri rifugiati mentre tutti gli altri sono criminali e finti rifugiati. Dicono che le persone che arrivano dall’Ucraina scappano dalla guerra e che arrivano nel primo Paese sicuro che trovano. Ma anche le persone che arrivano dalla Bielorussia scappano da guerre o da situazioni dove non possono continuare a vivere. Dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dallo Yemen. Tutti i rifugiati dovrebbero essere trattati nello stesso modo, non ci dovrebbero essere differenze“.

La crisi al confine bielorusso, iniziata a novembre, si è intensificata con il passare dei mesi e, ad agosto, le autorità hanno deciso di vietare alla stampa, alle organizzazioni non governative e alle stesse Nazioni Unite di entrare nelle zone di confine. In questo modo la circolazione di informazioni è limitata e prevale la versione del Governo polacco. Ma c’è anche chi, nonostante i rischi, continua a prestare soccorso.

I miei eroi sono le persone che abitano nella zona. Da agosto le loro vite sono cambiate. Molti sono anche diventati attivisti. La società qui è divisa: ci sono quelli che credono alla propaganda del Governo. Non so quanti sono ma penso siano la maggioranza. Semplicemente non sanno cosa sta accadendo, che tutto quello di cui parlavano i media in autunno è ancora in corso. E poi ci sono persone che sono coinvolte e stanno facendo il loro meglio per salvare le persone al confine“.

di Eleonora Panseri

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    Il femminicida non è un malato, ma un figlio sano del patriarcato, cresciuto in una cultura che considera la donna un essere inferiore. Da proteggere, sminuire, controllare, e nei casi più estremi, da picchiare o uccidere. In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa, spesso per mano di chi dovrebbe amarla. E oltre agli omicidi, un sommerso di violenze – dal catcalling alla violenza psicologica – pesa sulle donne, mentre la società si interroga troppo poco sulle sue responsabilità. Da questa riflessione nasce il progetto ideato dal Teatro Carcano, scritto da otto autori uomini e interpretato da Alessio Boni e Omar Pedrini, un viaggio nella mente del carnefice per analizzare il retaggio culturale che alimenta la violenza di genere. Inaugurato il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, lo spettacolo è un atto di autocoscienza collettiva che punta a smantellare le radici patriarcali della nostra cultura. Ospite a Cult, Alessio Boni ne ha parlato con Ira Rubini.

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