Confesso: quanto sento, ed è frequente, la frase ‘Ora ci sono profughi di serie A e profughi di serie B’ , intendendo con i primi chi scappa dall’Ucraina in guerra e trova accoglienza e con i secondi i tanti cui l’Europa sbarra da tempo le porte, ho un immediato sussulto.
È lo stesso che provo quando – davanti alle macerie dell’ospedale di Mariupol, davanti alla donna incinta ferita in barella di cui avevamo qui parlato e della cui morte insieme al suo bimbo abbiamo poi saputo – si ricorda che altri ospedali, in altre guerre che noi abbiamo poco visto, sono stati pure bombardati. con eguali, drammatici effetti.
Davanti alle evidenti ragioni di queste due affermazioni che di solito provengono da chi ha a cuore pace e solidarietà – democratici? di sinistra? li si chiami come si vuole – mi sono chiesta il perché di questo moto di fastidio, quasi di ripulsa che scatta istintivo. È una delle molte domande che quotidianamente questa guerra pone, più domande che risposte, molti più dubbi e tentativi di capire che granitiche certezze almeno per quanto mi riguarda.
Mi sono risposta che se le parole hanno un senso, quella dizione ‘serie A e serie B’, è come se togliesse umanità, comune umanità sia a chi la pronuncia sia a chi ne viene etichettato. Ci sento come un disprezzo definitorio, anche se mi rendo conto che va all’incontrario delle intenzioni di chi la pronuncia e che vorrebbe soltanto stigmatizzare una differenza di trattamento. Eppure provate a ripeterlo – Serie A, bianchi e biondi con gli occhi azzurri – sapendo di chi e di cosa parliamo: di gente che sta scappando da una guerra di aggressione, di gente che ha visto sbriciolarsi in pochi giorni una quotidianità fatta di tutte le preziosissime cose che la compongono, e la prima è il senso del futuro. Quello che non avrà la donna incinta in barella che ha protetto fino all’ultimo il suo bambino e che resta un simbolo senza neanche un nome. E vale eguale questo ragionamento anche per ‘la serie B’: vite, persone, uomini e donne che devono mettersi in cammino e che, oggi ci racconta ed è prezioso Avvenire, in queste stesse ore stanno intrappolati – ostaggi sfiniti dal freddo e dagli stenti – al confine tra la Bielorussia e la Polonia.
Nella giornata di oggi ho letto il reportage di Emanuel Carrére da Mosca: ho letto di chi si dispera, di chi si prepara a partire, di chi protesta in tanti o da solo, con un cartello bianco per strada: ‘per principio, per onore o per superare la paura’, scrive, anche se sanno di essere ‘praticamente spacciati’ e non solo per ciò che rischiano manifestando, ma per le conseguenze, interne ed esterne e di ogni tipo, che per tutti i russi questa guerra a lungo comporterà. Nelle stesse ore è ricomparsa sui nostri schermi Marina Ovsjannikova, la giornalista che ha fatto irruzione durante il telegiornale del primo canale russo con un cartello contro la guerra e la propaganda: era scomparsa, si è temuto per lei, per ora è stata solo multata. Per ora.
Ho pensato che i moscoviti incontrati in piazza da Carrére, la giornalista dall’incredibile coraggio stanno dando, a dispetto di tutto, la versione migliore di se stessi e della propria umanità. E noi allora, ancora al caldo e al sicuro: ci serve, ci rende migliori tirare righe – serie A, serie B – che suonano stonate, rozze, indifferenti alle vite e che ci rimettono dentro lo schema che vituperiamo? Oppure quello che oggi è da fare è chiedere all’Europa di imparare la lezione dalla grande fuga dall’Ucraina e ripensare le sue politiche per tutti i migranti e i rifugiati? Desiderio ingenuo? Può darsi, ma ciò mi aspetterei da quella cosa che va sotto il vago nome di sinistra e da chi, più o meno, vi si riconosce. Pensare, lavorare ad una versione migliore dell’Europa, facendo tesoro di quell’onda di solidarietà che oggi muove paesi fino a ieri a dir poco refrattari ad ogni ragionamento e pratica di accoglienza per farla diventare, finalmente, politica.