Si parla spesso di “quote rosa” con un accento dispregiativo, come fossero uno strumento di favoritismo invece che di inclusione – quando, all’opposto, servono a controbilanciare, per quanto con diversi limiti, un contesto implicitamente iniquo. E c’è chi lamenta una fantomatica “dittatura del politicamente corretto” ogni volta che – per restare solamente all’ambito del cinema e della televisione – si chiede che le selezioni dei festival o le writers room delle serie tv non siano composte unicamente da filmmaker e sceneggiatori di sesso maschile. Fa impressione a molti l’ultima annata cinematografica, che ha visto i suoi premi maggiori vinti da un’infilata di registe: Chloé Zhao premio Oscar per Nomadland (che aveva già trionfato a Venezia 2020), Julia Ducournau Palma d’oro a Cannes per Titane, Audrey Diwan Leone d’oro al Lido per La scelta di Anne – L’événement, recentemente Carla Simon Orso d’oro a Berlino per Alcarras, e proprio ieri Maggie Gyllenhaal agli Independent Spirit Award (gli Oscar del cinema americano indipendente) per La figlia oscura, tratto da un romanzo di Elena Ferrante. Fa impressione, eppure per oltre un secolo è stato perfettamente normale e indiscutibile vedere questi premi sollevati esclusivamente da mani maschili, e chi oggi si dice terrorizzato da un’inesistente (per lo meno in Italia) cancel culture non è sembrato e non sembra altrettanto in ambasce davanti alla sistematica cancellazione toccata all’espressione artistica femminile per millenni. Determinata, certo, dall’oppressione patriarcale che esclude le donne nei modi più diversi, più e meno evidenti, ma anche da una rimozione della memoria, da una mancata storicizzazione.
Osservando il passato più da vicino, o da altre angolazioni, si scopre – ohibò! – che le donne ci sono sempre state, e in alcuni casi hanno fatto la Storia, anche se poi la Storia si è “dimenticata” di ricordarle: a questo proposito, invece di una serie tv, questa settimana dedicata alla Giornata internazionale della donna vogliamo segnalare due documentari televisivi. Il primo, Lucy and Desi, è da poco approdato su Amazon Prime Video, e ripercorre anche attraverso interviste inedite la storia di Lucille Ball, attrice di cui abbiamo già parlato in occasione del film Being the Ricardos: interprete insieme al marito Desi Arnaz della serie I Love Lucy, negli anni 50, ha praticamente edificato l’impalcatura della situation comedy come la conosciamo oggi, quella con le riprese in multicamera e le risate registrate, ma non solo. I Love Lucy è stata la prima serie a essere filmata in pellicola, innovando così la qualità video, la prima a essere mandata “in replica”, la prima ad accogliere ospiti celebri in alcune puntate, e così via. Dagli storici della televisione è ritenuta il testo cruciale, quello che è servito, in un momento in cui il medium era del tutto nuovo e andava formandosi, da modello e prototipo per la serialità a venire – infatti, a dirigere Lucy and Desi c’è Amy Poehler, attrice di sitcom diventata celebre con Parks and Recreation. E Lucille Ball, talento comico inarrivabile, dalla fisicità audace e dall’espressività esagerata, è considerata un genio della commedia al pari di Charlie Chaplin e Buster Keaton.
L’altro documentario che vi segnaliamo andrà in onda su Sky Arte l’11 marzo, e sarà poi disponibile su NOW e SkyGo: s’intitola Be Natural – The Untold Story of Alice Guy-Blaché, è narrato da Jodie Foster e svela un’altra figura leggendaria, la cui rilevanza nella storia del cinema delle origini è pari a quella dei fratelli Lumière e di Georges Méliès. Alice Guy era un’impiegata alla Gaumont che nel 1895, anno “ufficiale” della nascita del cinema, a poco più di vent’anni assiste a una delle prime dimostrazioni del cinematografo; nel 1896 firma il suo primo film e presto viene messa a capo, appunto, delle produzioni Gaumont, che dirige fino al 1906, quando si sposa e si trasferisce negli Stati Uniti dove fonda la Solax, il primo grande studio cinematografico, prima ancora che esistesse Hollywood. Se i Lumière sono ricordati per le loro vedute naturalistiche e Méliès per le ingegnose applicazioni fantastiche di trucchi cinematografici, Alice Guy è considerata pioniera del cinema narrativo, la prima a intuire che quella delle immagini in movimento non fosse solo un’invenzione tecnica, un’attrazione prodigiosa, ma un nuovo mezzo per raccontare storie. E fare la Storia. Buon 8 marzo!