Con l’invio di armi all’Ucraina, l’Europa ha rinunciato definitivamente a un ruolo di mediazione e di dialogo. E ha rinunciato anche ad avere un ruolo autonomo rispetto alla Nato, a cui invece si è allineata con una subordinazione che fa sembrare dei giganti della politica estera Andreotti e Craxi.
Non le stiamo vendendo le armi, all’Ucraina: gliele stiamo regalando.
E la differenza non è da poco: vendere vuol dire fare soltanto uno sporco affare, regalare invece vuol dire qualcosa di più, cioè entrare surrettiziamente in guerra, seppur senza uomini sul terreno.
Per l’Italia, poi, fornire queste armi vuol dire anche aggirare le sue stessi leggi, in particolare quella del 1990 che vieta l’esportazione di armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato”.
Una buona legge, fatta nella consapevolezza che se si danno armi a un Paese in guerra poi finiscono per uccidere anche civili, vecchi, bambini. Specie se queste armi sono mitragliatrici e mine, come nel caso del conflitto in corso.
Che è un’invasione russa, certo, ma nelle sue regioni orientali è anche una guerra civile.
A proposito di russi, l’altro giorno nell’Ucraina invasa si sono visti alcuni dei 350 autoblindati Lince venduti all’esercito di Mosca dall’italiana Iveco.
Un affare di qualche anno fa, certo, dei tempi di Berlusconi.
Ma è curiosa questa cosa: ci saranno armi italiane da entrambe le parti del fronte, in questa guerra.
E non c’è molto da esserne orgogliosi, come non c’è da essere orgogliosi dell’assenza totale di un dibattito pubblico civile e politico che ha circondato la decisione di ieri.