E’ finita con Bernie Sanders che, dal palco della Convention democratica di Philadelphia, ha offerto l’appoggio più appassionato alla candidatura di Hillary Clinton: “Conosco Hillary Clinton da 25 anni – ha detto Sanders -. La ricordo come una grande First Lady che ha guidato la battaglia per la sanità pubblica e universale. Hillary Clinton sarà una straordinaria presidente e io sono orgoglioso di essere qui per lei stasera”.
Si è trattato di un appoggio previsto, ma non scontato in questa forma. Poche ore prima, proprio Sanders era stato contestato da parte dei suoi sostenitori, che hanno mal gradito l’endorsement alla Clinton. “Dobbiamo eleggere la Clinton”, aveva detto Sanders. Poi, davanti ai fischi, aveva cercato di giustificarsi: “Questo è il mondo reale. Trump è un bullo e un demagogo”. Senza grande successo. i fischi erano continuati, insieme alle urla di “Vogliamo Bernie”. Probabilmente, il vecchio Bernie.
La prima serata di Convention democratica ha offerto alcuni momenti interessanti. Il discorso di Michelle Obama, che ha reso omaggio a Hilalry Clinton come persona. “Mi fido di lei”, ha detto Obama, lasciandosi anche andare a una suggestione personale: “Mi sveglio ogni mattina in una casa che è stata costruita da schiavi. Guardo le mie figlie, due giovani belle, intelligenti donne nere, giocare con il loro cane sul prato della Casa Bianca. E, grazie a Hilalry Clinton, ora le mie figlie e tutti i nostri figli possono ritenere normale che una donna sia presidente degli Stati Uniti”.
E’ stata poi la volte della senatrice del Massachussetts, Elizabeth Warren, leader dell’ala progressista del partito, cui è spettato attaccare Donald Trump. Il candidato repubblicano è stato dipinto come un avventuriero, pronto ad approfittare della buona fede degli americani. La Warren ha citato gli studenti manipolati e truffati della Trump University; le dichiarazioni di bancarotta di Trump, per salvare il suo patrimonio; la produzione delle sue aziende, trasferita all’estero. Soprattutto, Trump è stato presentato come l’uomo che “farà a pezzi il tessuto dell’America, dividerà il Paese e metterà tutti contro tutti”.
Ma è stato appunto il discorso di Sanders a monopolizzare la serata. Il senatore ha puntigliosamente riepilogato i punti essenziali del suo programma: sanità, college, minimi salariali, riduzione delle diseguaglianze. Poi Sanders ha chiesto ai suoi di “non mettersi ai margini, ma di valutare che cosa succederebbe, in tema di libertà civili, di eguaglianza, di futuro, se Trump vincesse la presidenza”.
Bisognerà ora capire se l’appello verrà accolto. A una prima valutazione empirica, sulla base di un ventina di delegati di Sanders intervistati ieri, sembra che il giudizio negativo su Clinton resti. “Non mi fido di lei. Temo che vada alla Casa Bianca e non tenga nessuna delle promesse che sta facendo”, mi ha detto Cindy Fandarys, una delegata dell’Ohio. “Non la voto. Non la posso votare, nemmeno se me lo dice Bernie”, ha spiegato un giovanissimo delegato dell’Iowa, Zack Legers. Per Geena Parody, che viene dall’Indiana, “Bernie ha fatto bene a esprimere il suo appoggio a Clinton. Sono le regole del gioco, ha partecipato alle primarie, ha perso e ora deve appoggiare la vincitrice. Ma noi, non abbiamo firmato nessun impegno”.
C’è del resto un dato interessante, che forse spiega l’ostinazione dei supporters di Sanders. Molti di questi sono assolutamente nuovi alla politica. E’ gente che non ha alle spalle una storia nel partito. Entrano in politica mantenendo una forte dose di autonomia, perché molti di questi non erano, e non sono, parte del partito democratico. Sono entrati nel processo delle primarie democratiche grazie al messaggio del senatore Sanders: ma fino a pochi mesi fa erano sostenitori dei verdi di Jill Stein, dei libertarians di Gary Johnson, erano indipendenti, erano privi di qualsiasi affiliazione.
Questo spiega il nessun obbligo che molti dei “sandersiani” sentono per Clinton. Semplicemente, non sono democratici (come peraltro Bernie, che lo è diventato soltanto lo scorso autunno, per partecipare alle primarie). La scarsa storia politica di questa gente ha poi un altro effetto importante. Il rifiuto della mediazione. Quando Sanders, che pure si definisce socialista e ha passato tutta la vita a criticare lo status quo, chiede ai suoi di prendere atto del “mondo reale”, dice qualcosa che ampi settori dei suoi sostenitori non riconoscono. La mediazione, il compromesso, il processo politico – che è pesante, parziale, faticoso, spesso deludente e comunque sempre incompleto – sono principi che non appartengono a molti dei suoi sostenitori. Il qui e ora, la “rivoluzione politica” per cui sono entrati in politica, sono gli orizzonti del loro impegno.
In questo, ciò che è avvenuto in questi mesi nel partito democratico assomiglia a certi processi interni al partito repubblicano. Ovviamente, la natura del movimento di Bernie Sanders è diversa da quella del mondo che gira attorno a Donald Trump; diverse sono le politiche proposte (anche se ci sono comunque delle affinità: i supporter di Sanders, come quelli di Trump, sono profondamente critici dei trattati di commercio internazionali; pensano che il potere delle lobbies, soprattutto quella finanziaria, abbia corrotto la politica; non hanno grande rispetto per i politici di professione).
Fatte le debite differenze, e considerati i punti di contatto, c’è però un dato che soprattutto accomuna i due movimenti: entrambi, sono “esterni” ai partiti, democratico e repubblicano. Entrambi si legano in qualche modo a un “uomo della Provvidenza” che parla ai propri supporters, alla propria “gente”, senza la mediazione dei partiti; senza bisogno di corpi intermedi. Nel caso dei repubblicani, quanto avvenuto è più radicale. Trump e il suo movimento hanno occupato il partito, l’hanno svuotato della vecchia leadership, che si è accomodata da parte, in riva al fiume, sperando che prima o poi il cadavere – Trump – passi.
Per i democratici il cambio è meno radicale, ma comunque significativo. L’OPA lanciata dai sandersiani non ha vinto, come nel caso dei repubblicani; ma ci è andata vicina. L’anti-politica, o il disdegno per il sistema politico di questi anni, non è riuscita a svuotare la macchina del partito; ma ci è andata vicina. Così si spiega, in fondo, l’irriducibilità dei supporters di Sanders a integrarsi nel partito. L’ostinazione, il rumore, il clamore con cui ancora ieri, nell’arena della Convention i delegati di Sanders hanno mostrato sono il segno di questa irriducibile lontananza. Una lontananza che difficilmente sarà colmata, da qui a novembre.