Bisognerebbe celebrare Tangentopoli imparando a fare silenzio. A 30 anni dallo scandalo che per un attimo fece credere nel miracolo del “non sarà più come prima” dovremmo varare l’istituto di un minuto di silenzio ogni 17 febbraio, così da riflettere su ieri (luci ma quante ombre!), l’oggi (i fondi del Pnrr), il domani (riforme a parole da tutti volute). Col silenzio inauguriamo l’operazione “menti pulite”, cioè scevre dagli esercizi retorici resi immortali da Il Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Si tratta di far funzionare in modo onesto le menti, perché, s’è visto: le mani si lavano; poi si sporcano e da capo son da rilavare; e tutte e due lavan la faccia per renderla presentabile, se non proprio depurata.
La memoria, operazione d’igiene mentale per eccellenza, invece è indelebile. Il maquillage lì è impossibile: pena, niente futuro. Si posson tentare rimozioni, individuali e collettive, ma tracce mnestiche restano incise nei singoli e nella storia. Il silenzio è ricordare e rendere pensabile il cambiamento; è fare esami di realtà e di coscienza tutti: politici e singoli cittadini (ad esempio: pago tasse, Iva, emetto fatture, metto a libri colf o badante?). Le cerimonie sono armi di distrazione di massa, camuffano vizi sotto il rifacimento di facciate e relativi bonus (o camici, mascherine, concessioni balneari, reddito di cittadinanza). Il silenzio inquieta, dà fastidio, ma pone domande: fonti vitali, rigenerative. Le rievocazioni son scenografiche, non sempre frutto di studi e coscienza critica: merce rara questa in partiti, categorie, ordini professionali.
Il silenzio provoca; svela smarrimenti, deficit di analisi su origine dei fenomeni, discernimento e prospettive; ma proprio per la ridda di sentimenti e conflitti interni innescati rivela incoerenze, riserve mentali nel riconoscere quanto abbiam fatto noi nel determinare fenomeni; può far sentire vergogna (moto salutare!) se non si son tratte le conseguenze che si sarebbero potute trarre da eventi esterni accaduti proprio col contributo nostro. Dice un proverbio: «Passata la festa, gabbato lo santo». Il cumulo di furbizie che sta dietro a tale massima dice che Tangentopoli fu bene, “menti pulite” è meglio.