La chiamano “strategia dei quattro tagli”. E’ una tecnica utilizzata dal Tatmadaw, l’esercito birmano, fin dagli anni ‘60. A quel tempo, l’esercito la utilizzava come arma contro il partito comunista birmano e la minoranza etnica dei Karen. La più grande forza di questi gruppi armati era il loro profondo legame con le popolazioni locali e, quindi, per colpire loro, bisognava colpire la popolazione.
Raid aerei, interi villaggi rasi al suolo o dati alle fiamme, tagli ad ogni tipo di aiuto alimentare o medico, arresti indiscriminati e violenze sessuali. La strategia “dei quattro tagli” ha avuto conseguenze devastanti sulle popolazioni su cui è stata utilizzata e, ora, secondo un rapporto di Amnesty International, il Tatmadaw la sta applicando anche nelle zone dove sono attive le nuove Forze di difesa popolare. Dal colpo di stato del 1° febbraio, le Nazioni Unite hanno identificato 285 mila sfollati interni a causa degli scontri armati e dell’insicurezza e almeno due milioni di nuove persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. E per il 2022 si prevede una situazione ancora peggiore.
L’esercito, sostanzialmente, sta affamando la popolazione. Volontariamente. La morte e l’affaticamento dei civili non è un danno collaterale della guerra, ma un’arma fondamentale sul campo di battaglia. Il 9 giugno di quest’anno il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, ha parlato del rischio di “decessi di massa a causa della fame, delle malattie e dell’esposizione” perché l’esercito impediva alla popolazione di avere accesso al cibo, all’acqua e alle medicine e bloccava l’arrivo degli aiuti. Tra i racconti raccolti da Amnesty, c’è quello di Katherine – un nome di fantasia – che è morta quest’estate perché costretta a partorire nella foresta. Era entrata nel secondo trimestre di gravidanza quando sono iniziati i combattimenti tra le forze armate e i gruppi etnici di resistenza civile dello stato di Kayah. L’esercito ha condotto attacchi aerei, usato l’artiglieria pesante e ucciso indiscriminatamente costringendo 100.000 persone alla fuga nel giro di un mese.
Katherine e suo marito sono fuggiti nella foresta insieme ai loro bambini. Hanno trascorso la stagione delle piogge sotto un telone di plastica. Al settimo mese di gravidanza, Katherine ha iniziato a vomitare, a respirare male e a parlare con difficoltà. All’ottavo mese, non riusciva più a camminare. A ottobre, ha partorito e, subito dopo, lei e il neonato sono morti.
Amnesty ha intervistato sei operatori umanitari che hanno raccontato i modi con cui l’esercito del Myanmar limita l’accesso agli aiuti umanitari, arrestando gli operatori, confiscando o distruggendo cibo, medicine e altri beni o restringendo il loro trasporto. Nello stato meridionale di Shan gli operatori umanitari locali hanno cercato di inviare aiuti umanitari alla popolazione che si era rifugiata sulle montagne. In Birmania i militari hanno sparato contro un furgone che trasportava sacchi di riso, poi distrutto una scuola dove erano conservate scorte di cibo, medicinali e gasolio e hanno attaccato gli sfollati sulla montagna, costringendoli a fuggire nuovamente.
La strategia dell’esercito è chiara: da un lato affossare ogni tipo di sostegno che i civili possono dare alle forze ribelli, dall’altro alimentare la rabbia. Niente come la fame e la paura per la vita dei propri cari è in grado di spegnere la voglia di rivoluzione, pur di riavere indietro la calma. In passato questa tecnica ha funzionato, ma questa volta sembra diverso. Nonostante la violenza continui senza sosta da più di dieci mesi, la Birmania sembra determinata a resistere e la forza dei giovani riesce ad incanalare la rabbia usandola come motore propulsivo. I birmani non intendono arrendersi: la Birmania non tornerà indietro.
Foto | Una protesta contro l’esercito a Yangon