L’inflazione cresce in tutta Europa spinta dal costo dell’energia, ma in Italia pesa di più sui redditi bassi, perché da noi i salari son cresciuti molto meno. Così l’aumento di alimentari e benzina si è già mangiato il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e della logistica, e incide più proprio sulle fasce di reddito ignorate dalla riforma fiscale.
Secondo i dati Istat, l’aumento dei prezzi novembre ha raggiunto il +3,8% su base annua. Non si registrava un livello così alto da prima della crisi del 2008. Il carovita è spinto ancora una volta dalla crescita dei prezzi dei beni energetici: +30,7% a novembre. E si riflette ovviamente su tutta la filiera, in particolare sui beni alimentari e sui trasporti, portando la crescita del cosiddetto carrello della spesa, l’insieme dei beni considerati di largo consumo, al +3,8%.
Nell’Europa a 19 l’inflazione è salita del 4,9%, il massimo da 20 anni. L’Italia dunque sarebbe sotto la media Europea, ma il peso dell’aumento dei prezzi si fa sentire di più. E la causa è il basso livello di salari.
Che l’aumento dei prezzi di beni essenziali pesi più sui redditi più bassi, è un’ovvietà. Ma questo non dipende solo dal mero calcolo matematico, ma anche da una questione strettamente politica: i bassi salari che ci vedono in coda all’Europa occidentale.
Secondo Federconsumatori, un aumento tale porta ad un aggravio di oltre 1100 euro annui per una famiglia media. Di fatto si è già mangiato ad esempio il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, 112 euro lordi al mese, o quello di Amazon di 75.
Ma non solo: il consulente e analista Gianni Balduzzi, confrontando l’andamento di prezzi e salari negli ultimi 10 anni, rileva che i beni essenziali sono saliti più dei beni voluttuari e molto più dei salari. Se i salari sono saliti dell’1,3%, più di quella cifra sono saliti energia, utenze domestiche, spese per la casa, cibo e bevande, salite del 3,3%, 2 punti in più. Il confronto ad esempio con la Germania è impietoso: qui cibo, energia, trasporti, vestiti, pur essendo in alcuni casi saliti anche più che in Italia, son cresciuti molto meno dell’aumento medio dei salari. Gli aumenti di stipendio hanno insomma assorbito almeno in parte l’inflazione. Che per i lavoratori italiani si traduce invece in una perdita secca di potere d’acquisto, che si scarica sulla spesa mensile degli stipendi più bassi, su cui incidono di più le spese per trasporti, energia, cibi, le voci cioè con gli aumenti più forti.
Il 10% con gli stipendi più alti spende infatti il 9,5% del proprio reddito per i beni essenziali. Mentre il 10% di stipendi più bassi, che ha meno capacità di spesa per i beni voluttuari, spende nei beni più rincarati almeno un quinto del proprio reddito.
Sono proprio quella fascia sociale totalmente ignorata dalla recente spartizione dei tagli dell’Irpef votata dalla maggioranza al governo.
Un occhio di riguardo per le imprese invece non manca mai, al punto da attivare un meccanismo di “scala mobile”, addirittura retroattivo, per le aziende edili che lavorano per la pubblica amministrazione, per scontare nelle tasse l’aumento dei prezzi delle materie prime. Ma guai a parlarne per gli stipendi di chi lavora.