Che le donne non potranno, a Kabul, andare all’università né lavorarvi in attesa che venga creato quello che il nuovo rettore, appena nominato dai talebani, definisce ‘un ambiente islamico’ ovvero uno spazio in cui gli insegnanti non vedano le studentesse lo abbiamo appreso appena ieri dai media. ‘Islam first’ ha scritto su Twitter Mohammad Ashraf Ghairat e non c’è bisogno di ricordare chi cita. Che già il nuovo regime avesse vietato alle donne le scuole secondarie, che il ministero delle pari opportunità fosse stato sostituito da quello ‘per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio’ aveva solo confermato che è solo l’uso di Twitter a fare la differenza con venti anni fa.
Poi ci sono le cose che non sapevamo, la catena di ‘piccoli’ fatti che non arrivano ai media, che peraltro di Afghanistan vanno occupandosi sempre meno. Piccoli fatti, enormi conseguenze. Sulle vite delle donne, innanzitutto. Quel che non sapevamo è, per esempio, che a Kabul la casa ad indirizzo segreto per le – tante – donne maltrattate da mariti e famiglie che lì trovavano rifugio con i loro figli ha dovuto chiudere i battenti, troppo pericoloso adesso. Non sapevamo neanche che l’orfanatrofio in cui centinaia di bambine crescevano, ricevevano istruzione, cibo, possibilità di fare sport ha chiuso anch’esso: le bambine sono state affidate a famiglie fidate ma non è, ovviamente, come prima. Un’ultima cosa: un sacco di riso ‘prima’ costava 50 afghani, ora 500. Procacciarseli – il riso e i soldi – diventa sempre più una battaglia quotidiana.
Le cose che compongono lo stillicidio quotidiano di difficoltà per chi in Afghanistan è rimasto le hanno raccontate le attiviste del Cisda – importante il loro lavoro in Afghanistan e non da oggi – in un incontro alla Casa delle donne di Milano: scopo informare le tante che hanno partecipato (e altrettante non sono riuscite a entrare), ma ancor più creare una rete, italiana ed europea. Non ci dimenticate, lottate con noi ha detto in un video registrato una attivista di Rawa che vive in clandestinità. È tutto molto difficile, hanno riconosciuto le donne del Cisda: chiusi i progetti in questi anni tenuti in vita insieme alla rete afghana delle associazioni, complicato mandare aiuti con le banche chiuse, enorme il compito di creare una rete e tenere la luce accesa, ora che anche i telefoni del Cisda squillano meno, dopo l”assedio’ giornalistico di agosto.
Patriarcato, misoginia, repressione e il futuro delle bambine e delle donne che si oscura giorno dopo giorno. E per contro diritti, solidarietà, internazionalismo, femminismo: come dare sostanza alle parole risuonate nell’incontro, come trovare gesti forti che vincano sull’impotenza, come continuare a stare sulla vicenda afghana, non ‘per’ ma accanto alle donne che lì sono rimaste, è la scommessa, la sfida. Non perché – non lo crediamo – siano possibili similitudini tra qui e lì, ma perché le manifestazioni più violente e misogine ricordano a tutte che le donne hanno sempre qualcosa da perdere, qualcosa che è a rischio, qualcosa che può smottare anche laddove abbiano dalla loro forza e protagonismo e dove sembra che la loro libertà abbia tracciato un sentiero profondo.