Ma come? Mesi a glorificare lo smart working, dicendo che fosse uno dei pochi “effetti positivi” della pandemia, e adesso si fa marcia indietro? Pare proprio di sì. Da Brunetta a Draghi, è partita la gara a stoppare quella che in molti considerano la forma di lavoro del futuro e che ha permesso a milioni di persone di continuare a lavorare anche durante i lockdown causati dal Covid-19.
Eppure buona parte di quelle milioni di persone sarebbero state ben felici di continuare sulla strada del lavoro “agile”, anche se quello sperimentato era in realtà un “remote working” che di “smart” aveva pochino. Le potenzialità di un vero passaggio all’autonomia nella gestione del luogo di lavoro, però, le hanno viste tutti. Flessibilità negli orari, più tempo libero grazie all’abbandono dei trasferimenti, un modo diverso di vivere la città.
Allora, qual è il problema di Draghi e Brunetta? Il solito: dalle parti del governo si sono accorti che lo smart working fa bene alle persone ma non fa bene al PIL. Perché chi lavora da casa non deve consumare benzina per raggiungere il posto di lavoro, non ha bisogno di pranzare al bar e magari comincia a fare la spesa nei negozi di quartiere al posto di passare 12 ore in un centro commerciale nel weekend.
Maggiore qualità della vita, ma un calo di PIL. E non importa che il fenomeno sia dovuto a un diverso rapporto con il territorio (la famosa città a 15 minuti?) o al fatto che molti si rendano conto all’improvviso che non serve avere un mezzo di trasporto privato per vivere bene.
L’unico parametro di riferimento preso in considerazione è il PIL. Quello che trasforma inquinamento, alienazione e disagio in un valore quantificabile sulle prime pagine dei giornali per raccontare di una “Italia che riparte”.
Tutto questo mentre Milano si appresta a ospitare le manifestazioni di Fridays for Future, dove verrà urlata la (ennesima) ultima chiamata per un cambio di rotta sempre più necessario.