Mia cara Olympe

Aborto: il papa, la trappola della sofferenza e noi

Il papa fa il papa. Cos’altro vi aspettate se non che affermi che l’aborto è un omicidio, che il matrimonio eterosessuale è un sacramento e via dicendo? Sintetizzo in due righe un’obiezione, non del tutto insensata, che si è ascoltata le mille volte – l’ultima l’altro ieri, per bocca di Francesco – che un pontefice ha lanciato il suo anatema in materia di interruzione di gravidanza.
D’accordo il papa fa il suo mestiere, i cattolici difendono con intransigenza quella che ritengono vita sin dal concepimento: peraltro Francesco non è certo nuovo a questi  toni durissimi e misogini in materia di aborto e lo diciamo per chi se n’è meravigliato – Michela Marzano sulla Stampa per esempio – avendo l’immagine di un papa assai vicino, e lo è, alla sofferenza umana. Ma noi, noi dove stiamo?

Ecco un primo punto. La sofferenza. Ogniqualvolta l’autodeterminazione delle donne in materia di procreazione viene attaccata, molte reazioni, quasi sempre femminili anche perché il tema resta anche mediaticamente affidato a loro, si appellano alla sofferenza, al dramma che ognuna vivrebbe nel fare questa scelta. Un modo per dire al mondo: non siamo sicarie – questo l’allucinante paragone usato da Bergoglio – ma creature sofferenti che vivono con dolore questa scelta e, per questo, devono essere comprese e perdonate. Non mi ha mai convinto questa narrazione dell’interruzione di gravidanza che pone evidentemente una grande domanda a chi la decide – anzi pone ad ognuna una propria, personalissima domanda – ma non necessariamente comporta un dramma. Ci vedo invece un’enorme trappola concettuale nella quale le donne, certo non tutte, spesso cadono: dovremmo rivendicare soggettività e responsabilità, quella che usiamo per mettere o non mettere al mondo,  dovremmo chiedere ancora e ancora, visto che è tutt’altro che garantito, il diritto di interrompere la gravidanza in maniera sicura e attenta alla nostra salute e non incatenarci alla retorica della sofferenza, in nome della quale venire assolte. È una grande ‘cortesia’ che facciamo a tanti, mica solo al papa o ai cattolici: a ben pensarci questa narrazione ribadisce anche che l’aborto è esclusiva cosa di donne – il loro corpo, il loro dramma, il loro dolore – da cui gli uomini possono stare tranquillamente alla larga, come se – ce lo ricorda sempre Lea Melandri opportunamente legando femminicidio e aborto  – non fosse anche questa una vicenda specchio del rapporto tra i sessi per come, storicamente e culturalmente, si è declinato.

E allora il papa che fa il papa: la chiesa cattolica è, come sappiamo, attraversata da domande nuove e venti di cambiamento che diventano spesso bufere di reazioni eguali e contrarie. Di questo cambiamento molti ritengono che Bergoglio sia l’alfiere coraggioso: temiamo che le cose siano più complicate di così e di certo la riaffermazione di una misoginia così violenta non va in questa direzione e dà invece fiato a quanti, dentro e fuori, vivono l’autodeterminazione delle donne come una minaccia ad un ordine patriarcale da difendere ad ogni costo. Di questo Bergoglio, come  quelli che lo hanno preceduto, porta responsabilità e non è poca cosa per chi, come lui, vede e denuncia la diseguaglianza e la violenza nel mondo. Proprio qualche giorno fa è cominciato a Roma, assente il Comune,  il processo per il cosiddetto ‘cimitero dei feti’, le croci con il nome delle donne che hanno abortito apparse a loro insaputa al cimitero Flaminio. Se si vuole vedere in una sola immagine la colpevolizzazione, la mancanza di privacy, la violenza censoria, l’assenza di laicità che fanno da corollario all’interruzione di gravidanza nel nostro paese basta guardare una di quelle croci. A questo punto siamo ancora; e direi che se di sofferenza vogliamo parlare è di questa sofferenza che ne abbiamo abbastanza.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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    Il PAC, Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano, ospita un'ampia mostra personale dell'artista iraniana SHIRIN NESHAT vincitrice del Leone d’oro alla Biennale di Venezia del '99, del Leone d’argento per la miglior regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Premium Imperiale a Tokyo mel 2017. I temi esplorati dall'artista sono quelli dell’identità', della memoria e dell’appartenenza. La lente attraverso cui Neshat interpreta la Storia e la Contemporaneità non solo del suo Paese d'origine, l'Iran, ma del mondo intero, è lo sguardo delle donne: dagli esordi nei primi anni Novanta con la serie fotografica Women of Allah, i celebri corpi femminili istoriati con calligrafie poetiche, fino a The Fury, video-installazione che anticipa il movimento “Woman, Life, Freedom”. La ricerca di Shirin Neshat però travalica il tema di genere e, partendo dal dualismo uomo-donna, indaga le tensioni tra appartenenza ed esilio, salute e disagio mentale, sogno e realtà. La mostra è visitabile dal 28 marzo all'8 giugno. Il servizio di Tiziana Ricci.

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