Nato nel 1975 in Mauritania e cresciuto in Senegal, Daby Touré ha ormai passato più della metà della sua vita a Parigi. Già dagli anni novanta, col gruppo Touré Touré, ha cercato di costruirsi un’identità artistica che fosse a cavallo, all’incrocio di diverse culture, che rispecchiasse una apertura sul mondo, una identità in cui l’Africa era una parte decisiva ma non tutto.
Forse per questo desiderio di non essere incasellato, non volendo trovarsi costretto ad aderire ad un’immagine di musicista africano, magari persino un’immagine un po’ tradizionale, ha lasciato il rapporto con la Real World, l’etichetta di Peter Gabriel, con cui aveva lavorato nei primi anni del nuovo millennio. Daby Touré vuole essere libero di esprimersi creandosi una fisionomia a proprio piacimento: nella sua formazione, nel suo desiderio di diventare un musicista, sono stati decisivi Stevie Wonder, i Police, Michael Jackson, e i suoi gusti vanno fondamentalmente nella direzione del pop e del soul.
Un album come Amonafi (Cumbancha), che ha realizzato cantando e suonando lui stesso buona parte degli strumenti nel suo studio parigino, mostra in effetti, con melodie e una confezione musicale garbate e fresche, una vena personale e una dimensione aperta.
Però il Senegal e più in generale l’Africa nel modo di cantare si sentono eccome, e nella musica una sensibilità africana e richiami alle musiche del continente vengono spesso chiaramente fuori: e la vocazione di Daby Touré a tenersi lontano dai cliché, a non farsi definire dal suo essere africano ma da un percorso individuale, si combina felicemente, come riferimento e preoccupazione dominante, con l’Africa, la sua storia, i suoi problemi e anche le sue tradizioni.
Il titolo, intanto, è in wolof, e anche quello che significa è tutto un programma: “amonafi” sta per “C’era una volta”. Poi niente francese o inglese: le canzoni sono tutte in lingue dell’Africa occidentale, wolof, appunto, soninké e pular. Il brano che dà il titolo all’album rievoca il momento in cui la riduzione in schiavitù piombò su popolazione ignare e tranquille, cambiando di colpo, drammaticamente, il loro destino e quello del continente.
La canzone di apertura è ispirato dalla vita quotidiana del mondo in cui Daby è cresciuto da bambino; la vita di villaggio nell’Africa che ha conosciuto nell’infanzia torna in un’altra canzone in cui Daby suggerisce che forse la risposta alle complicazioni, alla continua lotta che caratterizza la nostra vita di oggi va cercata magari in un ritorno alla semplicità del passato. Un altro brano rende omaggio alla grandezza della civiltà del popolo soninké.
Protagonista di un’altra canzone è un giovane africano, diplomato, che cerca disperatamente lavoro, senza successo. Tanti altri giovani se ne vanno, una migrazione – dice Touré in un altro brano – che non può essere impedita, ma che sottrae all’Africa tante energie indispensabili per costruire il futuro del continente; e a proposito di migrazione, un’altra canzone ancora spiega che Parigi non è quel paese di bengodi che molti pensano di poter raggiungere: Daby l’ha scritta ispirato non da migranti africani, ma da una donna rumena che a Parigi dormiva per strada vicino a casa sua.
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E dell’attaccamento al proprio universo di provenienza è particolarmente significativo un brano che porta la sua firma assieme a quella del padre, che era il direttore di una troupe teatrale soninké, e che niente meno che per il Festival Panafricano di Algeri del ’69 aveva preparato un lungo lavoro in costume che raccontava le tappe della liberazione degli africani, dalla schiavitù fino alla decolonizzazione: Touré lo ha ripreso e ne ha ricavato una canzone, per dire che la lotta continua, e che bisogna essere orgogliosi della propria storia e passare il testimone alle generazioni che vengono dopo.
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