‘Le esplosioni mi hanno spaccato il cuore… l’incubo non ha mai fine’, scrive Shamsia Hassani, classe 1988, street artist afgana e stavolta la sua matita disegna la silhouette femminile che abbiamo imparato a conoscere sporcata da macchie di sangue. L’escalation afghana ammutolisce. L’enormità di ciò che va accadendo – ultima la strage all’aeroporto – ha la stessa misura del fallimento di questi ultimi 20 anni che si concludono nel modo peggiore: già molte nazioni occidentali hanno sospeso i voli da Kabul, già qualcuno, gli olandesi, manda a dire agli afghani che tentavano la strada della salvezza che è finita, che la trappola si è chiusa e loro ci sono rimasti dentro. Quel che era prevedibile e previsto, in una situazione ad altissimo tasso di instabilità anche per i ‘vincitori’ talebani, si è puntualmente verificato e gli osservatori concordano: non è finita, anzi per il popolo afghano, per le donne, è appena cominciata. Il primo settembre è alle porte.
In questo scenario sembra pochissima cosa, goccia nel mare, ciò che va sotto il titolo dell’intervento umanitario: per i 160mila finora evacuati da Kabul, ce ne sono – la fonte è il New York Times ripreso da will_ita– altri 25omila che hanno collaborato con gli americani e per i quali i rischi di ritorsione sono altissimi. E solo a Kabul vivono oltre 4 milioni di persone che resteranno a vedersela con il regime dei Talebani, con la sharia, con la crisi economica che morderà sempre di più. Un’altra cosa dicono i numeri: ovvero che l’Italia ha evacuato oltre 3700 persone, più di Francia e Canada per dire, ma non si tratta ovviamente di stilare classifiche. Si tratta adesso di accoglierle e ragionare su come accoglierle, quali progetti mettere in piedi, quali energie pubbliche e private attivare. Laddove privato significa sinergie sociali, ong, reti di donne che da subito – a smentire ancora una volta l’eterna tiritera del silenzio delle femministe sulla violazione dei diritti delle donne da parte dei talebani – hanno moltiplicato la mole di lavoro, in una relazione che già esisteva con le associazioni e le reti femminili afghane. Ci sono buoni esempi – il sociologo Maurizio Ambrosini ha raccontato qui dell’utile esperienza dei corridoi umanitari che hanno portato 500 profughi eritrei in Italia in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio – c’è delle creatività dal basso da attivare. E di quest’ultima ci sono i segni, da Nord a Sud: dal progetto ‘Una stanza per una donna afghana’ della cooperativa sociale Il Melograno che ha raccolto circa 200 adesioni, alla lettera che un preside, quello del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza, ha scritto ai genitori della sua scuola. Ha detto di un’occasione per i loro figli: di aprirsi all’accoglienza, alla conoscenza, all’incontro con studentesse e studenti afghani rifugiati in Italia ai quali il liceo vuole garantire un diritto fondamentale, quello all’istruzione. Qualche segno, qualche seme. Che almeno questi germoglino, in tanto disastro, si spera.