Il Panshir è l’unico territorio dell’Afghanistan non ancora conquistato dai talebani. Abbiamo raggiunto Raffaella Baiocchi, medico di Emergency, dal 2016 in Afghanistan, impegnata proprio nell’ospedale della Ong in Panshir. Il racconto delle condizioni di vita e lavoro nell’intervista Prisma di Claudio Jampaglia.
Sono le 11.40 di una mattina di agosto. È una bellissima estate. Siamo nel cuore di una valle molto verde. È una giornata stupenda e tranquilla. Tutto tace a parte gli uccellini.
Fino a una settimana fa eravate preoccupati. In questo momento, invece, non sembra interesse di nessuno fare una guerra.Intorno a voi sembra tranquillo? Avete feriti?
Io gestisco la maternità. Il coordinatore medico è un’infermiera serba. Diciamo che tutto tace apparentemente. In questi giorni abbiamo avuto un importante calo dei pazienti normali come le donne in gravidanza e i bambini della pediatria. Chi è già ricoverato chiede di essere dimesso il più presto possibile. C’è fermento. La gente cerca di raggiungere casa propria. Soprattutto le persone non originarie del Panshir.
C’è molta incertezza sulla possibilità di entrare e uscire dalla valle. Adesso è tutto aperto e a quanto ci risulta non ci sono problemi di accesso. Questa notte, invece, l’accesso è stato vietato. C’era un presidio talebano fuori dalla valle. I mezzi sanitari come le ambulanze potevano passare senza problemi, ma i mezzi privati no. Una mia paziente che doveva partorire non è potuta passare per le vie normali. Ha dovuto aggirare il presidio a piedi ed essere scortata dalle milizie del Panshir in ospedale. Fortunatamente questa mattina la viabilità aveva ripreso l’andamento normale.
Emergency è in Panshir da tanti anni. Avete preparato molti posti di terapia intensiva? È un ospedale grande?
È un ospedale molto grande. Equivale a un ospedale provinciale italiano. C’è un dipartimento chirurgico che, da sempre, non opera solo i feriti di guerra, ma fa anche chirurgia elettiva: colecisti, prostate e tutto quello che si fa in un paese tranquillo. C’è una clinica pediatrica e una grande maternità con un dipartimento di neonatologia. Adesso lavoriamo tutti di meno, perché l’afflusso di pazienti si è ridotto. Ci siamo preparati per accogliere un eventuale aumento del flusso dei feriti. Abbiamo riorganizzato il dipartimento chirurgico aumentando i posti per gli uomini, perché in fase acuta di conflitto i principali feriti sono loro. Ovviamente i “danni collaterali” esistono sempre. La popolazione civile può essere colpita in ogni momento. Abbiamo adibito delle stanze fuori dall’ospedale appartenenti all’area amministrativa in caso di grande afflusso dove poter mettere i pazienti in via di dimissione, che non hanno bisogno di particolari attenzioni. La maternità con la sua area ginecologica ha diversi letti a disposizione per le donne. Anche in pediatria ci sono dei posti. Fuori dall’ospedale abbiamo allestito delle tende dove fare il triage. Siamo pronti.
Lei è partita per la prima volta nel 2007. Che cambiamento ha vissuto in questo paese?
È innegabile che nelle aree urbane e nelle aree rurali, dove ci sono delle realtà come la nostra, la condizione della donna è cambiata molto, ma non penso sia così in tutte le aree dell’Afghanistan. Nelle zone più remote e svantaggiate non sono stati fatti grandissimi progressi. Quando siamo arrivati ci siamo trovati in un paese senza professionisti. Per la maggior parte eravamo internazionali dall’Italia. Cercavamo disperatamente di formare personale come ostetriche e infermiere per assistere le donne, ma si partiva da zero. Erano ragazze giovani a cui veniva permesso di lavorare la notte. Non era scontato in un ambiente di internazionali guardati un po’ con sospetto, perché appartenenti a una cultura diversa. Erano ragazze che sapevano a malapena leggere e scrivere. Adesso abbiamo ridotto tantissimo il personale internazionale, perché le ostetriche, le infermiere e le dottoresse formate nelle nostre scuole di specializzazione sono bravissime.
Le selezioni che facciamo per le nuove assunzioni sono basate sul livello di professionalità e conoscenza dell’inglese. Metà delle nostre ostetriche studiano medicina, non si fermano al posto di lavoro fisso, ma sono ambiziose e vogliono crescere. Dall’altra parte abbiamo avuto una vera e propria invasione di pazienti. Siamo partiti con 400 parti l’anno nel 2007. Adesso ne facciamo 7.000. La condizione della donna nelle aree urbane dove c’è investimento, informazione e possibilità di emancipazione lavorativa è migliorata. Se un giardino si innaffia i fiori spuntano.
Foto dal sito ufficiale di Emergency