Il voto britannico di giovedì scorso è stato una scossa fortissima ad uno dei simboli – a torto o a ragione – dello status quo in Europa, e cioè l’Unione europea e le sue istituzioni.
L’assestamento, dopo questa scossa, è pieno di insidie.
Sui tempi e, soprattutto, sui modi e sul merito delle scelte.
Quanto ai tempi: non si capisce ancora quando inizierà il negoziato tra Londra e Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. George Osborne, ministro dell’economia britannico, non ha fretta: “usciremo dall’Unione solo quando saremo pronti”. E con lui non hanno fretta i conservatori: da Cameron, il primo ministro dimissionario a Boris Johnson e agli altri papaveri dei tories in lizza per diventare primi ministri.
Modi e contenuti della trattativa.
L’uscita del Regno Unito dalla UE ridefinirà gli equilibri politici su temi importanti: austerità (in Gran Bretagna come in Europa), lavoro, investimenti, immigrazione. Potrà esserci una stretta ancor più dura nella direzione percorsa fin qui oppure l’inizio di un’inversione di rotta. Molto dipenderà da chi gestirà questa fase, sia in Gran Bretagna che in Europa. A Londra ci saranno i tories, e Farage, oppure i laburisti? In Europa sarà la cancelliera tedesca Merkel e la Bce a tenere il pallino in mano oppure un direttorio (Berlino-Parigi-Roma?) capace, chissà, di far uscire la politica europea dalla meccanica rigida dei vari “fiscal compact”? L’Europa, così come la Gran Bretagna, hanno bisogno innnanzitutto di politiche sociali. Le disuguaglianze denunciate in tutto il continente stanno scavando fossati sempre più larghi tra condizioni di vita delle persone, cittadinanza e partecipazione alla politica.
Il voto di giovedì scorso in Gb è stato una scelta (sì o no) sulla condivisione di questa Europa, non tanto sulla appartenenza a quest’Europa. E per esprimere la propria scelta i britannici sono corsi in massa ai seggi, almeno stando alle loro recenti abitudini elettorali. L’affluenza giovedì scorso è stata infatti del 72,2%, la più alta degli ultimi 19 anni. Nel 1997, alle politiche vinte da Tony Blair, votò il 71% degli elettori. Alle politiche dell’anno scorso vinte da David Cameron aveva votato soltanto il 66% degli elettori.
Perchè più elettori britannici hanno preferito votare al referendum sull’Unione Europea rispetto alle elezioni del proprio governo e del proprio parlamento?
Cosa ha prevalso nel referendum, un voto contro l’austerità (a Bruxelles come a Londra) o un voto nazionalistico per rimettere confini e barriere?
Come uscire dall’Europa dell’austerità senza finire nelle braccia di Farrage, Le Pen, Orban?
Ridare sovranità agli elettori contro le oligarchie: la destra invoca una sovranità “nazionalistica”. Esiste una sovranità “democratica”?
Sono alcune delle domande che Memos oggi ha girato al sociologo e politologo inglese Colin Crouch, professore emerito all’Università di Warwick. Crouch ha insegnato in diverse università britanniche. In Italia all’Istituto universitario europeo di Firenze. “Post-democrazia”(Laterza, 2003) è il titolo di un saggio in cui Crouch descrive le democrazie contemporanee: intatte nelle regole, degenerate nelle prassi, dove ad essere influenti sono sempre più gruppi oligarchici.
Ospite della puntata di oggi anche l’economista Massimo D’Antoni che insegna Scienza delle finanze all’Università di Siena.
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