Maria Silvia è nata a Ginevra, poi con la famiglia si è spostata a Napoli, ha vissuto a Milano per decenni e ormai da qualche anno si è trasferita per lavoro a Palma di Maiorca. Siamo amici da almeno trent’anni e, leggendo questo blog, le è venuta voglia di raccontarmi le lingue della sua vita. Con il suo consenso, condivido qui le sue riflessioni.
Mentre passa il tempo, ecco qua alcune piccole osservazioni totalmente personali sul tema della traduzione.
1) Quando impari una lingua da vecchio – come me intorno ai cinquant’anni – non puoi fare a meno di tradurre dalle tue strutture. Invecchiando apprendi meglio grazie a similitudini che a differenze. Le differenze sono maggiormente indigeste, le uguaglianze vanno giù leggere. Cosi rimesti conoscenze di fronte all’emergenza. Desideri esprimerti con la stessa accuratezza che impieghi nella tua lingua materna – così si chiama la lingua che ti hanno passato e che hai studiato. Che cosa sia la lingua materna è risposta delicata e non del tutto facile: richiede un’ascia che tagli cordoni ombelicali e ribalti le viscere; una lingua materna è un’etichetta facile solo nella compilazione del curriculum, documento che nessuno legge perché troppo significativo e nessuno ha voglia di prendersi tanta responsabilità. Cosi la mia lingua materna… quando giunsi al nord Italia avevo un pesante accento del sud e strutture del pensiero della stessa regione. Nonostante mi avessero sempre detto di parlare Italiano, senza saperlo, io parlavo un dialetto: una lingua che non ce l’aveva fatta ad uscire dai confini della propria innegabile autostima. Canzoni, teatro non bastavano a fronteggiare i certami e i dettami di secoli precedenti in cui l’Italiano, quello della Divina Commedia – che infatti risulta essere un viaggio all’inferno e ritorno – si era imposto come lingua nazionale, e quindi come “tua” lingua. Poi te ne vai e la tua lingua la lasci in parentesi. Poi studi il castigliano e il catalano e cerchi di esprimerti in lingue che scopri essere sempre state nella tua vita, camuffate nei dialetti del tuo paese, eredità pesanti.
2) L’Italiano come lingua piace in giro per il mondo; in più di un’occasione ne ho sentito decantare le doti sonore e melodiose. Tuttavia se devi fare la spesa alle Baleari hai due opzioni: il maldigerito – da parte della gente del posto – castigliano o una versione localissima del catalano. Ora il catalano: avevo una grande amica che di cognome faceva Catalano, ma all’epoca – tra gli anni Novanta e l’anno 2000 – neanche ci pensavo alle possibili connessioni di un cognome. Per altro credo che questa amica avesse parenti siciliani, giusto per complicare le cose. Ma un catalano in Sicilia che mai ci fa… Al di là dei motivi storici che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di scoprirli, la ragione più semplice è che ci muoviamo da un posto all’altro e difficilmente moriamo nel letto in cui siamo nati.
3) Ho imparato l’ Italiano a forza di reprimende. Se fai il classico in Italia – io l’ho fatto negli anni Ottanta del secolo scorso – nulla passa inosservato. Credo fosse ancora molto forte la necessità di definire una lingua nazionale, fuori da dialetti e inflessioni a quei tempi. Grammatica e sintassi eran croce e croce della tua vita da studente. Delizia della vita da adulto solo se ti affezioni al piacere della parola e superi il dramma del votaccio nel tema di Italiano. Che credo abbia perso il suo senso come esercizio, come le prove di dizione per abituarti alle vocali aperte o chiuse, e agli accenti tonici. Poi per necessità arriva lo studio del catalano e ti rendi conto che se avessi fatto le primarie in Catalogna avresti potuto utilizzare molto più proficuamente la lingua materna, il dialetto napoletano. I vari stong malat, stong ccha sarebbero passati assolutamente inosservati, anzi colti. Tanto tra estic e stong c’è la solita metatesi qualitativa di stampo ionico, se non ricordo male del greco classico delle colonie. La variante significativa è il tratto passeggero dello stato, qualunque esso sia, che l’Italiano come lingua non ammette e mal digerisce. Come se uno stato potesse difficilmente cambiare e afferisse a identità troppo incistate per mutare.