Il mio liceo, ricostruito dopo il devastante terremoto del 1908 negli anni 30 del secolo scorso in solide fattezze e intitolato a Tommaso Campanella, aveva un ingresso ‘per le femmine’. I maschi entravano dalla parte opposta, e sempre all’ultimo minuto perché la vita prima della campanella si svolgeva tutta e ovviamente dal lato delle ragazze. Anacronistico, fuori tempo massimo – era già la metà degli anni ’70 e si sentivano anche nella città in fondo allo stivale – l’ingresso delle femmine era anche misura assai stupida: molte sezioni, anche se non tutte, erano miste, come lo erano già le scuole medie dalle quali approdavamo alle severe mura del liceo classico.
Non so per quanti anni dopo la mia maturità finì quell’assurda segregazione, ma mi è tornata in mente durate una conversazione con una bimba di 5 anni sul significato della parola stereotipo. Sua madre ha detto che lo stereotipo è una cosa non vera, ma che in molti pensano o pensavano in passato, per esempio che le femmine non possono fare le stesse cose dei maschi, o che ci siano cose, come i colori o i giochi, da maschi o da femmine. E suo padre ha aggiunto: ‘La mamma ed io facciamo lo stesso lavoro e tutti e due ci occupiamo di te e di tuo fratello’. E lei, con la logica stringente dei piccoli, ci ha guardato e ha chiesto: ‘E perché prima non era così?’
Appunto. Perché, si potrebbe dire alla piccola A., c’erano cose da femmine e ingressi delle femmine. E noi, che pure combattive eravamo, a quella imposizione ridicola non ci siamo ribellate, mentre per fortuna – e glielo abbiamo raccontato – ad altre sì. Ma ciò che non le abbiamo raccontato è che quell’ingresso delle femmine, nella città in cui vive, nella regione in cui vive, nel sud del paese di cui è piccola cittadina, è anche una metafora. Che è la porta di un sentiero più stretto, che ha confinato molte delle ragazze che ci sono passate – in quelle e in altre scuole, prima e dopo – nel non lavoro, e non per scelta. Più diseguali fra diseguali, più svantaggiate tra gli svantaggiati, le donne del sud. Non solo ‘prima’, piccola A., ma anche oggi e ancora di più per effetto della pandemia. Certifica la Svimez in un suo rapporto di pochi giorni fa: ‘Il calo dell’occupazione è piuttosto omogeneo tra Mezzogiorno (-2%) e Centro-Nord (-1,9%). Ma sono le donne e i giovani del Sud a subire l’impatto occupazionale maggiore nella crisi pandemica: -3% a fronte del -2,4% del Centro-Nord per le donne; -6,9% al Sud a fronte del -4,4% del Centro-Nord per i giovani under 35’. Svimez parla di ‘effetti territoriali asimmetrici’ della pandemia e dice in sostanza che le crisi si sono sommate alle crisi e le debolezze alle debolezze, se è vero che ‘tra il 2008 ed il 2020 flette l’occupazione in tutte le regioni del Mezzogiorno con picchi elevati in Calabria (-10,4%) e Sicilia (-8.9%)’. Non abbiamo avuto cuore di raccontarlo alla piccola A.: c’è un tempo per gli stereotipi e uno per le metafore.