Julie Douib è morta il 3 marzo del 2019, a 34 anni, uccisa con tre colpi di pistola dal suo ex marito, che aveva lasciato pochi mesi prima. La sua è una storia come tante: quella di una donna che si innamora e sembra vivere una vita di coppia felice, rallegrata dall’arrivo di due figli di cui si occupa a tempo pieno in una piccola cittadina balneare nel nord della Corsica. Una donna che però nasconde a tutti, anche ai suoi genitori, la spirale di violenze che subisce da oltre tre anni, per vergogna e sensi di colpa. Quando riuscirà infine a confidarsi e a cercare aiuto, allontanandosi dal marito violento e ritrovando anche una certa indipendenza economica, sarà ormai troppo tardi. E a nulla sarà servito denunciare sei volte l’ex compagno per minacce di morte, molestie e violenze. L’ultima volta che Julie va dai carabinieri, due giorni prima del suo femminicidio, scopre che tutte le sue denunce sono state archiviate: “Dovrà uccidermi perché mi prendiate sul serio”, dice allora agli agenti, esasperata. Nello stesso ufficio dove si è costituito, subito dopo l’omicidio, il suo assassino, che oggi compare davanti ai giudici per la prima udienza del suo processo. Reo confesso, nega la premeditazione. Anche se gli inquirenti parlano di una vera e propria caccia alla vittima, colpita dall’ultimo proiettile mentre si dissanguava sul balcone di casa, dove aveva cercato rifugio.
Una storia come tante, dicevamo, fin troppo familiare. Ma che in Francia è diventata un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne. Il femminicidio di Julie, il trentesimo sui 146 registrati nel 2019, ha commosso profondamente l’opinione pubblica. Le marce bianche organizzate in Corsica e nella città natale della ragazza hanno mobilitato migliaia di persone e sono state uno degli eventi che ha spinto il governo a lanciare una concertazione per stabilire un piano di lotta nazionale contro le violenze sulle donne. Il progetto, che comprende 46 misure tra cui l’uso di braccialetti elettronici anti- avvicinamento, ha segnato una svolta nelle politiche pubbliche ma i progressi concreti sono molto lenti, un anno e mezzo dopo che è entrato in vigore.
Il padre di Julie Douib, intervenuto durante la concertazione e in prima linea nella denuncia dei femminicidi, è sconsolato dalla lentezza con cui cambiano le cose. Ma si dice fiducioso nella giustizia. La speranza è che, tra sei giorni, la sentenza sia non solo esemplare dal punto di vista della pena ma anche un simbolo per tutte le vittime di violenza.
“Il processo che si è aperto oggi e quello che si dirà in aula, spiega il padre di Julie, serviranno agli altri. Sperando che le donne possano denunciare più facilmente, che le si ascolti di più e che forse nel 2021 ne muoiano meno che nel 2020. Sarebbe una piccola vittoria.”
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