Da tempo assistiamo ad una corruzione del linguaggio che si manifesta in due modi. Il primo è quello di uno slittamento truffaldino e a dosi omeopatiche (sotto il peso dell’ideologia del mercato) del senso e della semantica delle parole: i diritti si trasformano in bisogni, i cittadini in clienti, i servizi medici in consumi sanitari, i servizi sociali in mercati sociali. Il secondo è di neutralizzare le parole, che non significano più nulla, non sono più connotative: Ivan Illich le chiamava “parole ameba”. Le parole, quando genuine, sono stanche, impotenti di fronte al trionfo del blob semantico.
Una di queste “parole ameba” è sostenibilità. Lo sta diventando molto rapidamente sotto il peso di una narrazione ormai indigesta alla quale tutti partecipano e a cui nessuno vuole mancare: dalle istituzioni (internazionali, europee, nazionali) alla sfera delle imprese, dai media al marketing, dal mondo dello spettacolo all’arte.
La sostenibilità -quella vera, sulla quale hanno puntato in questi anni movimenti e campagne- imporrebbe un cambio radicale nel nostro modello di sviluppo, nelle produzioni e nei consumi, nelle politiche pubbliche e nei comportamenti individuali. E’ quello che sta succedendo? Certamente, la nuova coscienza ambientalista ha portato a dei cambiamenti importanti, a prendere coscienza della possibile catastrofe ecologica, ad una nuova attenzione politica e culturale. Ma quello che sta avvenendo -al netto di alcuni cambiamenti ancora troppo lenti, ancora troppo parziali- è anche una imponente operazione di greenwashing, una operazione di riciclaggio morale e ambientale delle imprese, delle multinazionali e del mercato.
Ormai molte imprese italiane hanno un “bilancio di sostenibilità”, anche quelle che usano fonti fossili, che inquinano, che vendono armi ai paesi in guerra. E’ così che il Corriere della Sera dedica due paginate a Leonardo (che vende per l’appunto armi a regimi che violano i diritti umani) dandogli la patente di “colosso sostenibile”. A fare corsi sulla “sostenibilità” nelle scuole pubbliche italiane è l’ENI, con il beneplacito dei presidi italiani. A livello europeo è stato varato un regolamento per la “finanza sostenibile”, grazie alla consulenza di Black Rock, il colosso finanziario che investe nelle fonti fossili e che avrebbe qualcosa da raccontarci sui terremoti finanziari e speculativi di questo secolo. Secondo quel regolamento potranno essere “finanza sostenibile” anche quelle banche che hanno le loro riserve nei paradisi fiscali, che sfruttano i lavoratori, investono nel gas e nel nucleare, che fanno speculazione da casinò.
Basterà una riverniciatura verde per essere sostenibili? Questo è inaccettabile. Per ridare un senso alla sostenibilità, è necessario essere più stringenti ed esigenti sui contenuti delle scelte delle politiche pubbliche, alzare i toni della polemica, documentare e denunciare le scelte e i comportamenti di imprese e multinazionali (da cui diverse associazioni e le loro reti si fanno ingannare in partnership di cui vergognarsi), anche quelle con sede in Italia. Per evitare di ridursi al ruolo di “utili idioti”, bisognerà essere più radicali se si vogliono cambiare veramente le cose.