Diciotto anni fa, era il 17 maggio del 2003, moriva Luigi Pintor. Per me, (più o meno) giovane lettore de Il Manifesto, aspirante giornalista (all’epoca scrivevo su un giornale locale), appassionato di politica, (più o meno) comunista, Pintor (sebbene non lo abbia mai conosciuto personalmente) è stato un punto di riferimento importante, tanto che, l’anno successivo, è stato l’oggetto della mia tesi di laurea.
In questi giorni mi è capitato spesso di pensare a cosa avrebbe scritto di quanto sta accadendo in Palestina. Tra informazioni monche, parziali (più o meno in malafede), lunghissime analisi piene di paroloni incomprensibili, mi sono accorto di quanto manchi nel giornalismo (e nella politica) italiano, una capacità di analisi così profonda e allo stesso tempo una penna così fulminante come la sua. Vorrei le sue classiche venti righe (“ogni questione si può riassumere in venti righe, e una su tre è di troppo”, amava dire) che mi illuminino.
Mi sono riletto il suo ultimo articolo, pubblicato sul manifesto il 24 aprile del 2003. “Senza confini” è il titolo. Il suo testamento politico, è stato definito da qualcuno. Che lo sia o no, il rileggerlo diciotto anni dopo mi ha fatto pensare quanto sia ancora attualissimo. Inizia così: “La sinistra italiana che conosciamo è morta”. Qualcuno provi a dargli torto. E ancora: “Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno”. E all’epoca non esisteva ancora il Pd, e i democratici nostrani nella loro sigla tenevano ancora una S che almeno formalmente (sostanzialmente forse già non più) li identificava a sinistra.
Insomma, per Pintor non ci voleva “una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo”. Perché c’era (e c’è ancora) “un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte”. “Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine”, diceva ancora. Ma sia chiaro che non era un antesignano grillismo a fargli dire queste parole, ma la lucida consapevolezza di un comunista, eretico, italiano. Che avrebbe voluto, per contrastare quella parte di (dis)umanità che ci guida, “un’internazionale” (sebbene ritenesse questo termine da abolire.
Con quali caratteristiche? Dovrebbe essere “non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste”.
Ecco, diciotto anni dopo, forse vale la pena provarci davvero a “operare ogni giorno e invadere il campo”. Proprio per “reinventare la vita in un’era (questa che stiamo vivendo ancor di più di quello che descriveva Pintor) che ce ne sta privando in forme mai viste”.
Ma, caro Luigi, diciotto anni dopo non siamo ancora stati capaci nemmeno di scalfirli quei confini.
Foto | Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Valentino Parlato con la redazione, in una vecchia foto d’archivio