Io il lavoro l’ho perso diverse volte. E ogni volta, oltre che un problema, è stato un lutto. Non saprei come altro chiamarlo, se non così. Un lutto: da realizzare in prima istanza e ricordo molto bene il momento degli scatoloni e della restituzione delle chiavi, da elaborare poi, quando ti ritrovi a casa tu che a casa non ci sei mai stata, le giornate si spalancano, il telefono suona di rado e sembra di non avere nulla in mano. Non la voglio fare lunga: ho perso il lavoro la prima volta a 28 anni, quando in tanti oggi non hanno ancora cominciato e io lavoravo già da anni , in un momento in cui il lavoro c’era e se si perdeva, si ritrovava. Andò così. La seconda e la terza volta sono state più dure, più doloroso e non esente da conflitti vedere chiudere giornali molto amati e sui quali si era investito tantissimo, sapendo che fuori, beh, era ormai tutta un’altra storia per il mio mestiere. Quella che dura tuttora, peraltro.
Al netto del fatto – e proprio perché consapevole di quanto dirimente sia questo elemento – che la fine del lavoro non sia stata per me un fatto di immediata sopravvivenza anche se ovviamente causa di assai minori entrate, ogni volta la perdita mi ha investito con forza e mi ha chiesto di farci i conti. È questo che voglio ricordare, oggi primo maggio di pandemia, anno che ha visto tanti e soprattutto tante donne perdere il lavoro. Perderlo, sacrificarlo ai compiti di cura, o non cercarlo più, definitivamente scoraggiate. Vorrei dire di quell’eccedenza preziosa che il lavoro – soprattutto quello delle donne, ed è intuitivo capire perché – porta con sé: e mi spingo a dire, a costo di vedermi rimproverata, non soltanto se è un lavoro scelto o amato. Di che cosa è fatta questa eccedenza ciascuna di noi lo sa e ciascuna potrebbe descriverla: c’è l’autonomia, c’è il denaro, c’è lo spazio pubblico, c’è il ruolo nel mondo e nel proprio nucleo di affetti, l’essere utile, c’è, per chi lo è, non sentirsi solo la mamma di o la moglie di. E c’è, sì, il piacere di farlo, il tuo lavoro.
Il racconto del lavoro ne deve tenere conto: provate a chiedere a chi vi sta accanto cosa ama del suo lavoro, cosa lo/la rende soddisfatta o, al contrario, fa arrabbiare o accumulare frustrazione. Cosa vorrebbe fare e come vorrebbe lavorare. Scoprirete, nel dettaglio delle vite al lavoro, cose inedite, personali e molto interessanti, che esorbitano dalla casellina in cui ciascuno di noi, da lavoratore o lavoratrice, è racchiuso.
Nel momento in cui il lavoro si immiserisce, viene consegnato all’algoritmo o, peggio, scompare, salvare la creatività, la singolarità, quel pezzo in più che ciascuno di noi mette nel suo lavoro mi sembra necessario. Non perché non veda quanto lavoro senza diritti, quanto lavoro sfruttato ci sia intorno a me, ma perché – abuso di uno slogan vecchio ma quanto mai giusto e opportuno adesso – ci serve il pane, ci servono le rose.