Tra gli anni 10 e gli anni 70 del novecento più di 6 milioni di afroamericani lasciarono gli Stati Uniti del sud per trasferirsi altrove, cioè in luoghi in cui – almeno sulla carta – non erano in vigore le leggi segregazioniste, e il passato ancora relativamente vicino della schiavitù non faceva capolino a ogni angolo, magari sotto i bianchi cappucci del Klan. Gli storici la chiamano Great migration e, a sua volta, innescò un altro fenomeno, conosciuto come white flight, ovvero la fuga dei cittadini bianchi dai quartieri in cui si trasferivano le neoarrivate famiglie nere: non saranno state scritte sulle carte del legislatore, ma anche al nord o all’ovest le discriminazioni razziali erano ben radicate, e quasi mai si crearono vere comunità integrate, quanto piuttosto nuove ghettizzazioni, più o meno ufficiali.
La questione delle abitazioni è da sempre cruciale per comprendere lo sfruttamento sociale e di classe, e considerato che le case – infestate o maledette – sono anche un’ambientazione tipica dell’horror, non stupisce che qualcuno abbia pensato di unire le due cose: nello specifico, lo sceneggiatore Little Marvin che alla prima prova come showrunner ha creato Them, in Italia conosciuta anche col titolo Loro, disponibile da qualche settimana su Amazon Prime Video.
È necessario avvertire – come d’altronde fa anche la serie con dei disclaimer espliciti all’inizio degli episodi – che si tratta di una visione veramente orrorifica, con almeno un paio di scene difficilmente sostenibili: protagonista di Them è una famiglia nera, gli Emory, composta di padre, madre e due figlie che si trasferisce dalla campagna del South Carolina al borghesissimo sobborgo di East Compton, a Los Angeles, nel 1953; gli altri abitanti, tutti bianchi, li accolgono con aperto disprezzo, con abusi sfacciati, con minacce di morte. Nel frattempo, ognuno dei quattro Emory si ritrova perseguitato da presenze demoniache in grado di predare sui loro traumi sepolti e su quelli cui il razzismo sistemico li sottopone quotidianamente. E, come se non bastasse, è evidente che qualcosa di maligno e di marcio abita le pareti e il seminterrato della loro nuova casa.
Con queste premesse, è inevitabile che i protagonisti di Them – e, con loro, noi spettatori – siano sottoposti a un supplizio continuo, a una violenza – spesso psicologica, talvolta brutalmente fisica – incessante, tanto che tra i critici statunitensi c’è stato chi ha accusato la serie di fare “pornografia del dolore”, perpetuando immoralmente anche sullo schermo le sofferenze che l’America nera vive ogni giorno da oltre 400 anni. È anche vero, però, che la scelta di utilizzare tutti gli strumenti dell’horror per esplicitare l’esperienza di chi subisce il suprematismo bianco non è banale, ribaltando la vulgata che assegna automaticamente all’”uomo nero” il ruolo di babau nelle storie dell’orrore: qui, da subito, è l’apparizione di uomini e donne bianchi a instillare un senso di terrore, perfettamente giustificato dai loro comportamenti che – è importante ricordarlo – sono tutti storicamente accurati (per esempio, l’episodio del giardino bruciato è qualcosa che accadde davvero al leggendario Nat King Cole quando si trasferì in un quartiere bianco di Los Angeles).
È un modo di rendere tangibile, di far materializzare in tutta la sua portata intollerabile, un discorso che troppo spesso rischia di essere astratto, giocato nel limbo desensibilizzato dello scontro ideologico. Anche cose apparentemente burocratiche, come le pratiche di redlining (la creazione di zone urbane “abbandonate” da investimenti e servizi) o l’introduzione di covenant (clausole di contratto che specificavano che certe case non potevano essere vendute o affittate a persone non bianche), hanno conseguenze dirette, dolorose e cruciali nella vita delle persone nere, e configurano la misura di una persecuzione i cui effetti si vedono ancora oggi.
Il modo in cui si reagisce all’orrore messo in scena da Them dipende dalla sensibilità di ognuno, così come la scelta se affrontare o no certe immagini estreme. Ma forse anche nella sua insostenibilità, nel suo rifiuto di ogni pacificazione risiede la sua rilevanza, il suo dialogare con un presente in cui è stato necessario osservare mille volte i nove interminabili minuti in cui un agente ha soffocato a morte George Floyd per ottenere un’assunzione di responsabilità, un minimo sindacale di giustizia.