Con il ritorno in zona arancione di quasi tutta Italia, anche i ragazzi fino alla terza media – e almeno il 50 per cento di quelli di licei, istituti tecnici e professionali – sono di nuovo in classe. Ma tra pochi giorni si farà un altro passo: anche gli studenti delle superiori, nelle zone arancioni e gialle, torneranno in presenza al 100 per cento.
Il governo si è posto l’obiettivo di riportare tutti in aula almeno per un mese, per chiudere insieme l’anno scolastico. E così, tutti quelli che hanno visto i propri compagni di classe solo dietro agli schermi – e non sono stati abbastanza rapidi per socializzare nelle poche settimane passate in presenza – avranno un mese per cercare di conoscersi. Sempre se non arriverà un altro stop improvviso.
Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, non manca di dire in ogni occasione che il governo ha rimesso la scuola al centro. Lo ha detto in diverse interviste nelle scorse settimane, a partire da marzo, all’indomani della chiusura di tutte le scuole a causa delle varianti. Uno strano modo di rimettere al centro la scuola, verrebbe da dire. Certo quale poteva essere la soluzione in un momento d’emergenza? Quello che stonava era però vedere le scuole in Dad e i negozi aperti. Di nuovo.
Come di nuovo si è arrivati a un modo di riportare, alcune settimane dopo, i ragazzi in classe, almeno fino alla prima media. “Salviamone il più possibile” è quello che si leggeva tra le righe. Tra questi però non ci sono quasi mai i ragazzi dai 12 anni in su. Perché le seconde e terze medie hanno subito per lunghi periodi lo stesso destino dei loro fratelli maggiori. E di sicuro, nell’“arca”, non trovano posto quelli dai 14 in su. Perché a loro, nei pochi mesi in cui “è andata bene”, la presenza consentita era del 50 per cento.
I ragazzi delle superiori sono sempre i primi ad essere sacrificati. Considerati abbastanza grandi per autogestirsi, ma poi spesso additati dalla gente come irresponsabili e untori, in un’inquietante spinta a generalizzare e dimenticarsi cosa significa essere adolescenti e quale sacrificio stiamo chiedendo loro, in questa delicata fase della vita.
Incalzato dai giornalisti su come gestire l’emergenza, il ministro Bianchi riporta sempre la conversazione all’importanza di guardare al di là del momento. Per lui bisogna lavorare sul lungo termine, per costruire la scuola di domani. Meno male che finalmente un governo ha capito l’importanza di pensare a modifiche strutturali, all’innovazione e a creare un piano di miglioramento di ampio respiro, utilizzando al meglio la possibilità che ci dà il Recovery fund.
Questo però rimane un piano da disegnare e da costruire mattoncino dopo mattoncino. Un piano a cui si dovrà lavorare con impegno e risorse. Ma i problemi dell’oggi non possono essere ignorati. Ha ragione, non si può trovare una soluzione al contingente che risolva tutto. Qualsiasi cosa sarà come mettere una pezza a una situazione figlia di decenni di tagli, aggravata dalla pandemia.
Ma non si può neanche evitare di dare risposte ai ragazzi che vivono ora la scuola, che sono a casa da quasi un anno e mezzo. Altrimenti il rischio è passare il messaggio che loro siano sacrificabili, ancora. Che si lavorerà per salvare i loro fratelli minori, ma che loro sono dati per persi.
E la risposta a questi studenti e alle loro famiglie, arrivata tardi, non può essere semplicemente “riapriamo per un mese, vi abbiamo dimostrato che per il governo la scuola è una priorità ed è centrale nella vita del Paese”.
Oltre agli apprendimenti da recuperare e che potrebbero mettere i ragazzi in difficoltà in futuro, bisogna fare qualcosa per arginare l’emergenza che li sta investendo dal punto di vista psicologico. Ancora non si è vista una misura o dei fondi che vengano destinati alla salute mentale della “generazione Dad”. Anzi, sulla strategia per affrontare questo problema c’è parsimonia anche solo di parole.
E ora riaprono le scuole. Ma cos’è cambiato rispetto a un mese fa? Quali sono le misure in campo per tenerle aperte? Ci sono nuovi protocolli per arginare la variante inglese?
All’inizio, chiudendo gli istituti, si puntava su vaccinare rapidamente tutto il personale scolastico per riaprire più in sicurezza. Anche questa certezza è stata lavata via quando è arrivata la decisione di destinare le dosi alla popolazione fragile. Quindi, cosa ci fa pensare che questa volta ci saranno le condizioni per non richiudere?
Non solo, tornano tutti in presenza al 100 per cento, come prima della pandemia. Si parla di circa un milione in più di ragazzi rispetto a oggi. Ci sono nuovi spazi? Alcuni presidi lamentano una difficoltà nel rispettare questa percentuale che, con le linee guida sul distanziamento, non potevano garantire neanche a settembre.
E poi, il sistema di trasporti è stato ritarato su un aumento dei flussi? E a che punto stiamo con il sistema di tracciamento? Si parlava di tamponi rapidi a tutti gli studenti?
Aspettiamo risposte. Ancora.
Nel frattempo, ci si fa l’idea che per costruire un piano strutturale per quello che arriverà dopo la pandemia, ora si stia navigando a vista, senza una rotta precisa. Già proiettati verso le stelle della prossima stagione, dimentichiamo il mondo attuale, che ci accompagnerà, però, a lungo.