Premetto che per formazione culturale e politica sono un ipergarantista. Posizione che discende dal (a mio avviso civilissimo) principio che esiste nel nostro ordinamento giuridico che si chiama presunzione d’innocenza. Ossia che fino al terzo grado di giudizio un indagato lo si presume innocente, fino a prova contraria.
Qualche settimana fa, in una pigra serata (come da un anno a questa parte) di cazzeggio sul divano mi sono imbattuto nella serie tv 1992. Nello specifico nella scena in cui alcuni parlamentari leghisti (nella realtà storica era stato il senatore Leoni) sventolano in aula un cappio per protesta contro la corruzione dilagante tra i politici dell’epoca. Personalmente allora lo ritenni (e sono a distanza di quasi trent’anni ancora di questo avviso) uno dei punti più bassi toccati dalla nostra classe dirigente e che plasticamente ritraeva quel sentimento manettaro e giustizialista tanto in voga all’epoca (e mai scemato).
Questa mattina, alla notizia degli arresti a Opera, tra cui quello del sindaco (ai domiciliari) quell’immagine mi è tornata in mente. Antonino Nucera, primo cittadino del comune alle porte di Milano, venne definito da alcuni giornali al momento del suo insediamento “alla guida di uno schieramento di centrodestra a forte spinta leghista”. Insomma, se non lo si può proprio considerare leghista è molto vicino al Carroccio.
Ieri Il Fatto Quotidiano riportava la notizia che la sindaca (questa sì leghista) di Senago, sempre alle porte di Milano, ha nominato in giunta il fratello di un condannato per ‘ndrangheta, arrestato nel 2017. La famiglia Vitalone (il nome del neoassessore è Gabriele Vitalone) a Senago ha gestito bar e ristoranti in società anche con parenti legati ai clan di San Luca. Il neoassessore non ha pendenze giudiziarie, specifichiamolo, e se lo fosse anche per lui varrebbe come per tutti la presunzione di innocenza. Negli atti dell’indagine si legge che “le intercettazioni accertavano che Gabriele Vitalone sarebbe stato inserito nel mondo politico per una scelta mirata a consentire il pieno inserimento nel tessuto socio-economico dei componenti la famiglia Vitalone”.
Se mettiamo in fila le inchieste che riguardano esponenti leghisti (dai vertici ai militanti della base) l’elenco si fa lungo: i famosi 49 milioni di contributi elettorali spariti; le spese pazze di numerosi consiglieri regionali del Carroccio; il Russiagate e il caso Savoini; l’indagine sui fondi alla Lombardia Film Commission; il caso camici in Regione Lombardia e il conto corrente svizzero del presidente della Regione Attilio Fontana. Mi fermo qui.
Tutto questo significa che dobbiamo trasformarci in una manica di sanguinosi manettari alla ricerca di giustizia (più o meno sommaria)? Assolutamente no. La questione giudiziaria sarà portata avanti dai giudici. C’è una questione politica alla base: quando Roberto Maroni divenne segretario della Lega, dopo le vicende giudiziarie che coinvolsero Umberto Bossi, organizzò la “notte delle scope” in cui promise di “pulire il pollaio”. Dopo di lui il suo successore Matteo Salvini, tra un rosario e l’altro, disse più volte che “chi sbaglia deve pagare”. Più banalmente, si tratta di non fare la figura di quello che “predica bene e razzola male”. Non che negli altri partiti si sia messi meglio. Ma forse, senza scomodare Berlinguer e la sua questione morale, si potrebbe semplicemente parlare di “questione di dignità”. O anche solo di decenza.