Otto e mezza di mattina, mi connetto al link mandato dalla professoressa. Si apre la finestra di Google Meet e sento la voce di una delle responsabili del progetto che riprende gli argomenti trattati negli incontri precedenti, per fare il punto prima del webinar con me. Oggi vesto il ruolo della professoressa in Dad per una classe di un istituto alberghiero milanese, che sta preparando un project work a sfondo turistico. Mi hanno chiamata come esperta, per proporre qualche spunto di comunicazione digitale – a partire da una mappa interattiva che ho creato e che i ragazzi stanno usando come materiale di studio per il corso – e per spiegare i rudimenti del videomaking.
Non vedo tutti i partecipanti, in anteprima ho solo alcuni dei quadratini in cui sono incorniciati i loro volti. I ragazzi sono silenziosi, qualcuno ha spento la telecamera. Diversi sembrano ancora mezzi addormentati ma, del resto, come dargli torto: è la prima ora e si prospetta l’ennesima giornata dietro allo schermo. Tra quelli che vedo, c’è uno studente con la faccia simpatica, sembra interessato. Provo a fare delle domande. “Avete TikTok?”. Mi fa segno di no con la testa. “Instagram?”. Annuisce. Sempre con il sorriso. Una sola reazione, ma mi basta come incoraggiamento. Continuo, sperando di catturare l’attenzione di qualche altro di loro e di non diffondere un’epidemia di narcolessia.
Provo a far vedere del materiale, per portare esempi concreti di quello di cui sto parlando. “Vedete la finestra che sto condividendo?”. Non ancora, ci vuole un po’ di tempo. Aspetto. Per ogni condivisione c’è un’attesa durante la quale mi chiedo se nel frattempo abbia già fatto addormentare qualcuno. Poi riprendo a parlare. Ma a quanto pare la mia connessione si impalla. “Ti vediamo bloccata”, mi avvisano su WhatsApp. Molto bene. La connessione è saltata. Succederà più volte durante la mattinata.
Questo mi riporta a qualche settimana fa, a Roma. Con me c’è Teresa, un’amica, educatrice, che sta partecipando a una lezione in Dad con una terza elementare. I racconti degli amici docenti mi si rivelano davanti agli occhi. “Mi vedete bambini?”. Un coro di no. No anche da parte di Teresa, quando la stessa domanda arriva a lei e all’insegnante di sostegno. Dopo un po’ si risolve il problema tecnico. Parte la lezione di computing, in versione “analogica”. Devono colorare con le matite i quadretti sul foglio, secondo le istruzioni che dà la maestra. Dovrebbe poi comparire un disegno “pixelato” per la festa del papà.
I bambini parlano tutti insieme. Si susseguono le loro voci in un continuo vortice di “Non ho capito”, “Maestra, puoi ripetere? Mia sorella stava cantando e sono rimasto indietro”, “Sono ancora alla riga prima, ma non mi tornano i colori: io ho fatto cinque quadratini blu, due rossi”. Un bambino sventola un camioncino davanti alla fotocamera, un altro corre per la stanza. E poi arriva la fatidica domanda: “Maestra, posso andare in bagno?”. Automatismi da aula che restano anche a casa propria, pare.
Dopo un’ora e mezza sono alla quarta riga. Ne devono fare 22. L’educatrice si disconnette, deve partecipare a un’altra lezione. Non sapremo mai se sono riusciti a completare il disegno.