Il titolo di questo blog, oltre a un un omaggio allo spaghetti-western, a Giuliano Gemma, a Lee Van Cleef e alla musica di Riz Ortolani, tanto cara a Tarantino, e oltre a una prevedibile allusione al mio bizzaro nome proprio, è anche uno splendido pretesto per dare sfogo al peccato capitale in cui più spesso incorro.
L’Ira è un potente motore, inutile negarlo, lo si sa dal temp del Carlo Cudega (i non-milanesi rintracceranno facilmente il significato di questa pittoresca espressione) e anche da molto prima.
Tanto per cambiare, il primo a parlarne è Aristotele. Ma è all’oscuro monaco Evagrio Pontico che si deve la classificazione dei peccati in senso cristiano. A quei tempi, però, anche la Tristezza era considerata un peccato. Interessante, no?
Infatti, se gli iracondi danteschi si prendono a schiaffoni nella palude dello Stige, un po’ come nella (divina) commedia all’italiana, gli iracondi “amari”, o accidiosi, se ne stanno sotto la superficie fangosa a masticare, appunto, amaro.
C’è una bella differenza. Piuttosto che macerare nel fango del rancore, meglio sfogarsi qui, nel blog.
Dunque, dicevamo, l’Ira.
Io preferisco definirla (impropriamente) un sentimento. Brutto, ingombrante, ma un sentimento. Vi dirò di più, credo sia un sentimento a suo modo assai popolare. Considerato spesso ed erroneamente un attributo dell’autorevolezza. Quando in realtà, diciamocelo, è la più limpida espressione dell’inquietudine impaurita.
Quindi, credo non sia un caso se l’Illuminismo si sia sostanzialmente disfatto della classificazione dei peccati capitali, rivalutando l’Ira al punto da considerarla una energia dinamica, l’attributo proverbiale e in fondo perdonabile dell’uomo di potere (e “de panza”).
Il gioco è sempre quello, almeno nel sistema patriarcale che solo adesso sembra occasionalmente vacillare: un difetto può trasformarsi in virtù, se capovolgo tutto quello che c’è intorno o elimino la fonte del dubbio (filosofico). Un altro ottimo sistema per trasformare il Male in Bene è quello di ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte, per farla diventare una verità. Sì, lo so che qualcuno avrà riconosciuto la citazione. Ma mi sono ripromessa di non citare mai i nomi dei carnefici del Reich, per non dare loro ulteriore visibilità in rete.
Forse Liliana Segre, che ho avuto l’onore di incontrare spesso, mi comprenderebbe. Il suo nome, invece, lo scriverei cento, mille, un milione di volte.
Ma torniamo all’Ira.
Ecco, quello che (im)modestamente vorrei fare in questo blog è condividere i motivi che più che quotidianamente mi precipitano in quella che Seneca e gli antichi saggi definivano brevem insaniam, pazzia breve. I suoi effetti, spiega sempre Seneca, sono tremendi, quindi li lascio in latino, perché mi creano imbarazzo: flagrant ac micant oculi, multus ore toto rubor, exaestuante ab imis praecordiis sanguine, labra quatiuntur, dentes comprimuntur, horrent ac surriguntur capilli.
Cominciamo, dunque, da oggi a dare sfogo all’Ira, senza abbandonare il mondo degli antichi.
Grazie a Gianfranco Manfredi e al suo bel volume C’era una volta il popolo – Storia della cultura popolare (ed. DeriveApprodi) ho ritrovato un estratto dal De Spectaculis dell’apologeta cristiano Tertulliano: “I teatri sono sentine di impurità e disonestà. Le tragedie e le commedie hanno in loro qualcosa di illecito e di empio. Il teatro è cosa che ha in sé carattere demoniaco. Ogni godimento che può esser dato dagli spettacoli, è intimamente unito con qualcosa di empio, di sacrilego, di diabolico.”
Capperi. Che intuizione profetica. Alla fine, l’ha avuta vinta, Tertulliano il malmostoso. Infatti, in questo agghiacciante, sconvolgente anno di pandemia, i teatri sono chiusi. E le chiese, aperte.
Che rabbia. Anzi, che Ira.