A giorni sarebbero fioriti i ciliegi. Gli scaffali dei supermercati erano vuoti, ma a Tokio gli adolescenti continuavano imperterriti a fare lo struscio ad Akihabara vestiti da personaggi tristi dei manga. La città si sforzava di mantenere una compostezza almeno apparente. Nel Tohoku c’era la neve, i campi degli sfollati disperati e ordinati e la tavola calda più buona del mondo affacciata su una distesa di lamiere contorte e assi e divani e spazzole e barche e pentole e tutto quello che si lascia dietro di uno tsunami.
Sono passati a dieci anni, ma nel cuore del disastro, la centrale di Fukushima Daichi, l’emergenza non è mai finita. Da quando l’onda generata da uno dei terremoti più potenti mai registrati al mondo si è abbattuta sulle coste nordoccidentali del Giappone, l’uomo combatte una battaglia senza sosta per rattoppare gli edifici distrutti dalla stessa energia che avrebbero dovuto custodire, nel tentativo di limitare le fuoriuscite radioattive.
I reattori squarciati dalle esplosioni sono giganti fragili, lo smantellamento e la messa in sicurezza sono complicati e costosi. Solo poco meno di un mese fa un terremoto di magnitudo 7 ha provocato l’ennesimo malfunzionamento degli impianti. Non sarà l’ultimo, considerato che il piano di smantellamento della centrale non sarà completato prima di 30 o 40 anni, e potrebbe trattarsi di una stima ottimistica.
Tutto questo ha avuto e avrà uno spaventoso costo umano, sociale, economico. Le voragini aperte dal terremoto sono state richiuse, le strade ricostruite, ma la centrale di Fukushima resta circondata da città fantasma. Gli unici a tornare, quando sono stati autorizzati a farlo, sono stati gli anziani.
Il tessuto produttivo di una delle regioni più sviluppate del Paese non si è mai risollevato. In tempi di entusiasmo per la transizione ecologica, quando il nobile obiettivo della decarbonizzazione insinua nel dibattito pubblico la necessità di un ripensamento sul nucleare, ricordiamocene.
Fukushima è lì, coi suoi reattori spenti inutili e pericolosi, con le sue città contaminate coi suoi frutteti abbandonati. E sempre a proposito del presente, con le macerie di senso del trauma collettivo per eccellenza, la perdita del controllo e l’irruzione della paura e della morte invisibile, qualcosa di cui il mondo, il nostro mondo, avrebbe fatto esperienza recente solo dieci anni più tardi.