Comunque vadano i ballottaggi, il problema nel Partito Democratico è evidente. Lo ha ammesso lo stesso Matteo Renzi, e lo dicono i numeri: un elettore su tre del Pd a Roma ha votato Virginia Raggi, più o meno lo stesso è accaduto anche a Bologna e Torino.
I fuoriusciti del Pd come Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre non hanno rappresentato nessuna attrattiva e interesse per i delusi da Renzi, lo è stato invece il Movimento 5 Stelle. Probabilmente si è trattato di un voto di protesta significativo applicato alle singole città e situazioni, che potrebbe non replicarsi alle politiche del 2018 e nemmeno al referendum di autunno. Ma è un segnale fortissimo per il partito di Renzi. Ora il segretario del Pd dice di voler commissariare Napoli e di voler andare con il lanciafiamme nel Pd delle regioni del Sud per ricostruirlo.
Il problema è che in questi ultimi due anni la gestione personalistica del partito, o con me o contro di me, ha ridotto la vitalità, la discussione interna, la crescita e il rinnovamento del partito nelle diverse aree.
Da troppo tempo il Pd è una forza politica in trasformazione: Renzi vuole farlo diventare il “Partito della Nazione”, Bersani da dentro lo vuole vivere ancora come una “Ditta”. Il risultato è un partito che non riesce ad avere più un’anima. Ed è una realtà evidente a Roma, dove vince solo nel centro della città, nell’area più ricca e borghese, perde a vantaggio dei cinque stelle e del centrodestra in tutte le periferie.
Renzi fa il Presidente del Consiglio e il segretario, perché solo così può cambiare da dentro il partito, ridimensionando la minoranza interna, e allargandolo magari ai moderati di altri schieramenti.
Laddove il candidato del Pd era appoggiato anche da esponenti di Ala, il partito di Denis Verdini, non c’è stato nessun valore aggiunto. Verdini ha la sua utilità solo per i numeri al Senato, sul territorio non è così. Per questo Renzi aspetta il ballottaggio e poi dovrà capire se andare avanti così, o cambiare qualcosa. Ma non soltanto al Sud.