– Rita, mi dai i moduli dell’anamnesi? Prendi farmaci?
– Sì un integratore.
– Ok, il consenso informato c’è. Ti va bene il braccio destro o preferisci il sinistro?
– Il sinistro.
– Va bene, Rita può essere vaccinata.
Di questi tempi non è semplice essere ottimisti, ma in qualche mese ognuno di noi potrebbe essere al posto di Rita e sentirsi rivolgere le stesse domande.
Sono quelle che precedono la vaccinazione contro il COVID. Ad oggi solo poche e precise persone possono ricevere la prima delle due dosi necessarie per avere qualche certezza di non contrarre la malattia: personale degli ospedali, delle croci di primo soccorso, ospiti e dipendenti delle residenze sanitarie assistenziali, le RSA.
Siamo stati in una di queste, al ricovero Uboldi di Paderno Dugnano, pochi chilometri a nord di Milano. Una struttura circondata da un ampio giardino, in autunno o in primavera non dev’essere niente male. Chi lavora qui la scorsa primavera la ricorda bene, ma per altri motivi. Semplicemente, da quel momento in poi niente è stato più come prima.
Il Covid è arrivato qui da noi ai primi di aprile. Ho in mente benissimo la persona che è guarita ed è ancora qua. Ha iniziato a manifestare febbre il 3 aprile. Nel giro di due settimane, più del 60 percento degli ospiti è risultato positivo e quasi l’80 percento degli operatori.
A ricordare quei momenti è Paola Cattin, direttrice generale della Fondazione Uboldi. Di formazione è un’infermiera ed è quanto di più lontano si possa immaginare dalla figura del manager preoccupato più di far quadrare i conti che delle persone.
La scorsa primavera ha visto morire per il Covid almeno venticinque ospiti della struttura, per tre settimane è rimasta a prendersi cura dei positivi senza mai tornare a casa. Il Covid lo ha anche provato in prima persona e le ci sono voluti quasi due mesi prima di vedere il tampone diventare negativo.
Per tirare fuori l’Uboldi dal dramma sono stati necessari tempo, la responsabilità di tutti i lavoratori e un’organizzazione ferrea di test: un molecolare al mese per tutti, un tampone rapido ogni 15 giorni e in caso di sintomi sospetti. Da luglio non ci sono più stati nuovi casi.
Ripete che le sembra trascorso un secolo da quando ha dovuto procurarsi da sola le prime mascherine FFP2 perché nessuno forniva dispositivi di protezione. Solo con l’arrivo del vaccino però intravede un momento di svolta per la sua struttura: “Al momento della telefonata mi sono anche commossa. Questo vaccino rappresenta la fine di un anno che per noi è stato molto impegnativo e doloroso. Ora vediamo una ripartenza”.
A metà gennaio sessanta operatori e dodici ospiti hanno ricevuto la prima vaccinazione e con la prossima consegna tutti avranno completato il primo giro di somministrazioni. Andrea Secci è il referente degli infermieri e spiega come viene preparata una dose di vaccino: “Dopo che ci viene consegnato in flaconi da sei dosi, il vaccino della Pfizer viene conservato in frigorifero tra i 3 e gli 8 °C. Bastano dieci-quindici minuti a temperatura ambiente e poi sono somministrabili. Viene diluito con 1,8 millilitri di soluzione fisiologica. Una volta ottenuta la miscela, si prelevano 0,3 millilitri da somministrare per via intramuscolare”.
La signora Agnese il 6 gennaio ha compiuto 100 anni e non è l’ospite più anziana della struttura. Più grande di lei c’è la signora Palmira che di anni ne ha quasi 105. In primavera entrambe sono state contagiate, ora tutt’e due hanno ricevuto il vaccino. Agnese dice di avere la passione per la pittura e di aver dipinto l’aurora quella mattina. Ricorda più volte il suo compleanno e tiene il tempo anche alla pandemia: “Non finisce più questo Covid, è già a momenti un anno che ha iniziato. Da marzo dell’anno scorso. Speriamo che finisca presto, lo diciamo sempre. Sono contenta di aver ricevuto il vaccino, speriamo che faccia qualcosa”.
Per tutta la vita Agnese è rimasta a Paderno, così come sua mamma e sua nonna prima di lei. Da quasi un anno però il suo mondo comincia e finisce dentro il ricovero Uboldi e la lontananza dai figli e dalla famiglia si fa sentire. “Ci siamo visti con il telefono solo ieri. Anche se qui si sta bene la casa e i miei figli mancano. Quello sì, mancano”.
L’isolamento degli anziani delle RSA non è stato minimamente tenuto in considerazione dalle norme per tanto, troppo tempo. Come ricorda Paola Cattin per preservare la salute dei nonni non basta cercare di tenerli al riparo dalla malattia. Il contatto con le persone care non può essere sacrificabile. Da alcune settimane si è finalmente aperto qualche spiraglio per le visite: “Siamo stati chiusi al pubblico da febbraio a ottobre-novembre“. A fine novembre una circolare del ministero della Salute ha previsto la possibilità di visite previo il tampone rapido:
A fronte di richieste da parte dei familiari di poter incontrare il proprio congiunto, io e il responsabile sanitario valutiamo caso per caso per capire se quella visita può avere un reale beneficio clinico ma anche sociale e psicologico sull’assistito. Se così è, un solo visitatore accede alla struttura, fa il triage d’ingresso e il tampone rapido. Se è negativo, può incontrare il proprio genitore, nonno o zio. Mantenendo le distanze, con la mascherina, però finalmente si possono vedere.
Com’è stato vedere gli ospiti incontrare dopo tanti mesi figli o parenti? “Ci sono stati incontri molto commoventi. Ricordo quello di Francesca, un’ospite con una capacità cognitiva residua molto limitata. Il figlio è un uomo grande e grosso fisicamente, quando ha rivisto sua madre, demente, piccola e magra, si è messo in ginocchio, si è messo a piangere. E sua mamma lo consolava. È stato molto bello, forse il momento più bello di tutto questo periodo”.
Ritrovare l’emozione di un abbraccio, dopo quel che è accaduto, può assumere un significato molto diverso da quello a cui eravamo abituati. La pandemia ci ha costretti a chiuderci in noi stessi, delle volte anche ad allontanarci da chi avrebbe più bisogno di qualcuno vicino.
Sono ancora molte le incognite sui vaccini anti-Covid, tante le domande che attendono risposte. Ad oggi però restano il motivo migliore per provare a guardare al futuro con un po’ di speranza. “Adesso che abbiamo finalmente il vaccino siamo entusiasti, ci sembra veramente di vedere la luce in fondo al tunnel. Non riprendiamo una vita normale, il monitoraggio rimane costante. Ma certo l’idea di raggiungere la vaccinazione di un alto numero di persone ci permette di iniziare magari ad aprire le porte ai nuovi ospiti e ai visitatori” racconta ancora Paola Cattin.
Come immagina la fine di tutto questo? “Abbiamo già tutto pianificato – conclude – quando avremo la possibilità di tornare a una vita di relazione ci immaginiamo di fare una festa nel nostro parco qui fuori, con i tendoni, all’aperto. Qualcosa di molto semplice”.
E la signora Agnese ha già pensato a cosa farà quando finirà il Covid? “Facciamo festa, facciamo una bella festa!”
Di Luca Parena