Naturalmente ci sono problemi ben più gravi, ma a qualcuno quel che manca di più a causa della pandemia è il viaggio. Specialmente a chi vive il viaggio non solo come turismo, o momento di riposo o svago, ma anche come un’esperienza trasformativa indispensabile a capire il mondo, a guardarlo con occhi diversi e sempre nuovi. Un possibile antidoto a quest’assenza si trova su Netflix da qualche settimana e s’intitola Fran Lebowitz – Una vita a New York.
È una miniserie documentaria in sette puntate diretta, prodotta e “accompagnata” da Martin Scorsese, che continua così la sua proficua collaborazione con la piattaforma streaming, dopo il doc musicale, tra vero e falso, su Bob Dylan Rolling Thunder Review, e il capolavoro fiume The Irishman, con Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci (a proposito: se vi è piaciuto su Netflix trovate anche una conversazione tra i tre attori protagonisti e il regista).
Fran Lebowitz è un nome che forse qui in Italia non è troppo conosciuto, ma per i newyorkesi è una vera e propria istituzione, al punto che la sua immagine per molti si fonde col panorama stesso della Grande Mela: nata nel 1950 in una città del New Jersey, è scappata a New York appena ha potuto, cioè a 18 anni, e da lì non s’è più mossa, diventando celebre come giornalista – Andy Warhol la assunse per il suo magazine “Interview” –, come scrittrice (con le raccolte di saggi Metropolitan Life e Social Studies) e in generale come acuta umorista e commentatrice del proprio tempo e, soprattutto, della vita newyorkese.
Nella miniserie Netflix, Lebowitz è quasi sempre accanto allo stesso Scorsese, che, al tavolo del leggendario bar The Players oppure sul palco di una delle frequenti affollatissime conferenze pubbliche tenute dall’autrice, la ascolta parlare di tutto, e si sganascia dalle risate. Lebowitz esprime opinioni su tutto – dai trasporti pubblici al proprio odio per la tecnologia – e rievoca la propria gioventù, i suoi mille lavori (tra cui la tassista, come il Travis Bickle di Taxi Driver), la vivissima scena creativa della città in un momento – gli anni 70 – in cui paradossalmente la metropoli era fatiscente e degradata, la propria amicizia con artisti come Charles Mingus e Toni Morrison (a cui la serie è dedicata).
Altre volte Lebowitz fende la folla per le strade di una Manhattan pre pandemia: il suo sguardo scruta le vette altissime dei grattacieli, oppure, piantato a terra, scopre le tante targhe che punteggiano i marciapiedi newyorkesi, tenendo traccia di una città in continuo mutamento, nell’indifferenza di cittadini e turisti, e che – sospetta Lebowitz – forse sono state messe lì solo per lei.
Altre volte ancora Lebowitz chiacchiera camminando con attenzione su una perfetta replica in miniatura di New York, realizzata nel 1964 e ora ospitata al museo del Queens: il suo status di “donna gigante” è così esplicitato, tra tanta ammirazione e un po’ di paura – Lebowitz non è un’intellettuale accomodante, ha opinioni assolute e definitive su tutto, spesso contraddittorie, spesso vicine all’ironico e nevrotico lamentarsi incessante che il cinema e la tv ci hanno insegnato esser tipico dei newyorkesi.
Passare del tempo con lei, e con l’amico Scorsese, è un viaggio che a tratti assomiglia a un confessionale intimo, a tratti a una routine da stand-up comedy osservazionale: vista da lì, dall’alto di una Fran Lebowitz gigante che passeggia tra i grattacieli inondandoli delle proprie parole, New York si rivela per ciò che è soprattutto, cioè un’idea – e infatti il titolo originale è Pretend It’s a City, “immagina che sia una città”. Un’idea insieme imprendibile e accessibile, un luogo dell’immaginario tenuto vivo da chi la ama e continua a raccontarla, e per questo raggiungibile da chiunque, da ovunque, alla faccia della pandemia. New York è un viaggio – di parole, storie, ricordi, aria, metallo e vento, cinema e musica –, un viaggio che non finisce mai.