Come raccontavamo, venerdì sera il Primavera Sound si era, almeno in parte, almeno per un’ampia porzione del suo pubblico, modellato sui Radiohead. Grandi, quasi ingombranti, in un Festival fatto di una ricchezza composita e variegata di proposte musicali. E nel contempo capaci di legittimare la propria “stazza” con un concerto intensissimo e partecipatissimo. Ma poi è successa una cosa: almeno per chi scrive, la serata decisiva, definitiva, di questa sedicesima edizione del Primavera di Barcellona è stata quella di ieri, grazie a PJ Harvey.
Già venerdì pomeriggio c’era stato uno che la sapeva lunga che pareva metterci in guardia su quello che ci stava aspettando: era il mega-produttore Flood, artefice dei suoni di più di un album di Polly Jean Harvey e anche di questo nono e ultimo The hope six demolition project (in collaborazione con John Parish). In un incontro organizzato dal Primavera Pro si era spinto fino a dire che lavorare su quel disco era stata una delle esperienze più esaltanti della sua vita professionale. E aveva parlato di un’energia potente e mistica di cui erano intrise le canzoni.
Alle 22.30 di sabato sera quell’energia è stata irradiata sul pubblico del Primavera Sound: il palco è stato occupato da una band di nove elementi, in abito scuro, in cui spiccavano, per noi italiani, due musicisti che per un paio di decenni si sono distinti per bravura sulle nostre scene e che ora hanno la soddisfazione di far parte di un progetto così prestigioso. Uno è Alessandro “Asso” Stefana, che noi di Radio Pop abbiamo conosciuto come chitarrista di Marco Parente e che poi abbiamo incontrato in molte altre occasioni, con Vinicio Capossela e con i Guano Padano, ad esempio. L’altro è Enrico Gabrielli, polistrumentista di talento sconfinato, tra le colonne dei Mariposa, dei Calibro 35, dell’Orchestrina Di Molto Agevole, recentemente dei The Winstons, e collaboratore richiestissimo da mille altri gruppi e artisti del nostro paese.
Gabrielli e Stefana sono stati chiamati da PJ Harvey già per le session di registrazione di The hope six demolition project, svoltesi, come un’installazione d’arte, in una stanza dalle pareti trasparenti posta all’interno della Somerset House di Londra, così che il pubblico potesse osservare ogni passaggio della produzione dell’album. Le canzoni del disco sono nate tra il 2011 e il 2014, ispirate dai viaggi che la Harvey ha fatto in Kosovo, Afghanistan e Washington DC insieme al fotografo e regista Seamus Murphy, da cui è nato anche il libro The Hollow of the Hand, con poesie di lei e foto di lui.
Il disco è splendido, ma queste canzoni sul palco sono cresciute ancora, tanto che il fatto che la scaletta del live sia stata quasi interamente dedicata a loro, con poche concessioni al – pur meraviglioso – repertorio del passato, non è risultato un difetto. Certamente però, oltre ai dieci pezzi nuovi, un accenno alla versione gigantesca di “To bring you my love” fatta ieri sera è doveroso. Per circa un’ora e mezza PJ Harvey è stata la padrona assoluta del palco del Primavera: una voce perfetta in ogni passaggio, una personalità magnetica, un carisma puro, una sensualità non provocante, ma ipnotica.
Difficile per chiunque arrivare dopo un concerto così: e allora ecco che i pur bravissimi Sigur Ros sono parsi, loro malgrado e non per loro responsabilità, quasi incolori. Nella memoria della serata restano comunque impresse anche altre esibizioni: come quella di Brian Wilson che, nell’anno in cui il suo capolavoro pubblicato con i Beach Boys Pet Sounds compie 50 anni, lo riporta per intero dal vivo. Un’occasione che permette di lasciare da parte le valutazioni sulla performance in sé: basta inchinarsi di fronte a quell’opera di genio pop che ha influenzato in modo inestimabile la musica che ascoltiamo.
E’ stata divertente e molto godibile invece la performance degli americani Deerhunter, che hanno messo in luce in particolare i lati più festosi e funky della loro musica. Oltre a iscriversi anche loro al club degli entusiasti di questo Festival, raccontandone la magica unicità con alcune sentite parole dal palco, a fine concerto. Valido anche il live di US Girls, progetto della musicista e cantante Meghan Remy, accompagnata sul palco solo da un’altra vocalist: l’unico vero limite della sua esibizione è stata la mancanza di una vera band alle spalle, con l’effetto di raffreddare un po’ i pezzi, invece piacevolmente aggressivi e acidi.
Poco prima dell’una di notte abbiamo potuto apprezzare il live di un’altra talentuosa ragazza, l’americana Julia Holter. Il suo quarto album da studio, Have you in my wilderness, è stata una delle cose migliori ascoltate negli ultimi mesi. Forse dal vivo può ancora crescere e migliorare, soprattutto nel gestire il pathos dell’esibizione, che a volte è parsa un po’ distaccata. Ma la sua presenza è stata certamente una di quelle che hanno arricchito questa edizione del Primavera.
La nottata, almeno per noi, si è chiusa con il concerto dei Moderat, nati della collaborazione fra Sascha Ring, meglio noto come Apparat, e i Modeselektor, Gernot Bronsert e Sebastian Szarzy. Nel giro di tre dischi il trio tedesco si è conquistato un ruolo di primissimo piano sulla scena dell’elettronica mondiale e anche ieri sera hanno dimostrato la loro bravura con un live molto immediato, pop, melodico e pulsante.
Ma nel lasciare, fino alla prossima edizione, l’area del Parc del Forum, il pensiero non poteva che tornare a PJ Harvey e alla sensazione di aver assistito certamente a uno dei live dell’anno. E forse anche a qualcosa di più.