Tredici anni da quella notte in cui otto operai dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino vennero travolti da una fiammata improvvisa, un incendio devastante alla linea 5. In sei morirono quella notte. Uno morì dopo un mese di sofferenze in ospedale. Solo uno di loro si salvò.
Le vittime furono: Antonio Schiavone, 36 anni, Roberto Scola, 32 anni, Angelo Laurino, 43 anni, Bruno Santino, 26 anni, Rocco Marzo, 54 anni, Rosario Rodinò, 26 anni, Giuseppe Demasi, 26 anni.
Antonio Boccuzzi rimase ferito. Ma si salvò. Oggi ha 47 anni, è sposato, ha una bimba di nove anni. È stato parlamentare e soprattutto non ha mai smesso di raccontare e di denunciare. Lo fa anche nelle scuole.
Nel tredicesimo anniversario della tragedia a Torino è stato inaugurato il memoriale delle vittime all’interno del cimitero monumentale della città.
“Credo sia stato un momento importante per la città. Mi auguro possa essere anche un monito al ricordo per non dimenticare e perché non accadano più tragedie come quella che abbiamo vissuto noi. Era da tempo che c’era questa promessa e devo riconoscere alla sindaca Appendino di essere riuscita a portare a termine qualcosa che le famiglie volevano fortemente. Non solo per loro. Ma perché si faccia quotidianamente un’opera di attenzione per la sicurezza sul lavoro e di realizzazione concreta di quello che le leggi prevedono“.
Antonio Boccuzzi, qual è oggi il sentimento prevalente nelle famiglie delle vittime di quel giorno?
Oltre al dolore che ci accompagna da 13 anni è sempre forte la rabbia per un processo che avrebbe dovuto essere un processo simbolo, che avrebbe dovuto essere veloce, importante. È vero che ha portato a condanne significative ma, ahimè, sono condanne mai applicate. Dopo così tanto tempo l’amministratore delegato, il maggiore responsabile di quello che successe non ha fatto un minuto di carcere. Ecco, accanto al dolore c’è quella rabbia nei confronti di una giustizia incompiuta.
Che peso ha oggi nella sua vita il ricordo di quel 6 dicembre?
È ancora preponderante e voglio che sia tale. Molti mi hanno chiesto se voglio dimenticare. Anche i medici che hanno accompagnato la mia cura in questi anni mi hanno chiesto, quasi proponendomelo, di cercare un compromesso, di provare a dimenticare per stare meglio. Ma io non voglio, non ho mai voluto dimenticare perché credo che aiutare a conoscere quello che è successo persone che non hanno mai sentito parlare della Thyssen sia importante.
Anche i più giovani?
Certo, i ragazzi che oggi hanno vent’anni erano dei bimbi allora. Quando vado nelle scuole a parlare a questi ragazzi è una trasmissione del dolore che ho vissuto ma nello stesso momento è provare a dare un senso civico a quello che ci è successo. E non si traduce soltanto nell’aver contribuito in maniera determinante alla legislazione che oggi regola la sicurezza sul lavoro, ma anche creare una nuova attenzione su questi temi.
Oggi c’è, questa attenzione?
Credo che all’inizio, immediatamente dopo la tragedia, ci sia stata. In questi anni però si è via via un po’ dimenticata, come è stata un po’ dimenticata la tragedia. Forse è normale che sia così, ma per me non lo è. E si è dimenticata purtroppo anche l’attenzione alla sicurezza sul lavoro e i numeri che sono tornati a cresce negli ultimi due anni danno evidenza a questa amnesia.
Che reazione hanno i ragazzi e le ragazze delle scuole quando racconti loro di quella notte?
All’inizio c’è curiosità, poi subentra l’attenzione, l’incredulità. Non solo per quello che è accaduto ma per quello che non è stato fatto per evitarlo. E questo secondo me è il senso più grande di quello che facciamo nelle scuole. Proviamo a costruire dei percorsi, a parlare anche di incidenti non avvenuto ma che sarebbero potuti avvenire.
I ragazzi delle scuole, quindi, colgono il senso dell’ingiustizia, non della fatalità…
Penso che in loro ci sia l’idea giusta che nulla può essere lasciato al caso in questo argomento. Forse noi lo diamo per scontato. Ma i ragazzi che sentono quello che è successo alla Thyssen – e soprattutto perché è successo – lo trovano assurdo, lo trovano aberrante. E io credo che sia lo spirito giusto per capire questa tragedia e non solo la nostra. E da qui ripartire per arrivare comunque a un messaggio positivo…
Quale?
Un messaggio di rinascita. Partiamo dalla tragedia della Thyssen perché non accadano mai più altre Thyssen.
Foto dalla pagina Facebook di Antonio Boccuzzi