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Tratto dal podcast
Jack di mar 10/11/20
Cultura | 2020-11-10
Tamer Nassar, sassofonista della band italo-palestinese Al Raseef, racconta a Radio Popolare l’esodo musicale del gruppo per tutto il Mediterraneo. L’intervista di Claudio Agostoni a Jack.
Da Ramallah a Demonte la strada è lunga: raccontaci le tappe che ci sono state.
La band è nata principalmente in Palestina nel 2011. A Ramallah eravamo uno dei primi gruppi di strada e da quello è arrivato il nome del gruppo, che in arabo significa “sul marciapiede“. Al Raseef era nata per caso, avevamo deciso tutti insieme di andare a suonare due o tre pezzi e poi di tornare a casa, solo per nostro divertimento personale; tuttavia era stato un gran successo, a Ramallah tutti si erano divertiti un sacco. Allora ci siamo detti “questo gruppo funziona, questa tipologia di musica, questo mix di strumenti che per noi alla fine sono occidentali, non fanno parte della cultura funziona“. Lì abbiamo deciso di cominciare a fare un sacco di concerti, siamo diventati pian piano conosciuti in tutta la Palestina e abbiamo suonato in vari festival. Da noi la libertà di spostarci da una città all’altra non è scontata, ci dobbiamo pensare mille volte, ci sono mille checkpoint e l’occupazione israeliana non ci permette quasi mai di muoverci liberamente anche nelle zone palestinesi, ed è ancora più difficile suonare nei territori occupati. Ci abbiamo suonato con grande successo, però è sempre difficile perché non abbiamo la libertà di spostarci da una città all’altra, neanche nei nostri territori.
Dopo la Palestina siete venuti in Italia, a Genova.
Un giorno io e il clarinettista, Ayham, abbiamo deciso che fosse il momento giusto per andare a studiare musica, perché da noi non c’era alcun conservatorio che ci desse un diploma; abbiamo deciso di andare quindi a Genova e di studiare al conservatorio Niccolò Paganini. Un anno dopo ci hanno raggiunto anche gli altri e abbiamo cominciato iniziare a suonare per le strade, vicoli, carruggi di Genova. Pian piano hanno iniziato a chiamarci anche i locali e i festival. Poco dopo abbiamo suonato un paio di volte col nostro trombettista Mario Martini e da lì è diventato un progetto fisso che sta andando avanti. Abbiamo suonato in Liguria e non solo, abbiamo fatto concerti a Milano, Torino, Firenze e abbiamo deciso di fare anche il disco.
Le vostre scelte musicali sono particolari: c’è un repertorio da brass band e quindi ci viene da pensare ai Balcani, però voi ci innervate dentro qualche cosa che fa parte della cultura vostra.
In Palestina abbiamo cominciato come una band di musica balcanica. Quando siamo arrivati qui però ci siamo detti che non avesse tanto senso suonare musica balcanica, che al confine con l’Italia ci sono tanti gruppi migliori, bravi e che ce l’hanno proprio nel sangue. Abbiamo deciso di mantenere più o meno lo stile, però mettendo non solo la nostra anima, ma anche la nostra cultura, la nostra musica. E’ diventato un viaggio musicale, dai Balcani, alla Turchia, alla Siria, al Libano, alla Palestina, all’Egitto fino a tutto il Nord Africa: è diventato proprio un viaggio sul Mediterraneo per noi.
La situazione che stiamo vivendo in questi mesi col COVID-19 è un problema sia artistico sia personale: siete ritornati in Palestina negli ultimi mesi?
Purtroppo no, è molto difficile viaggiare anche se vuoi tornare a casa. Metterei a rischio la mia famiglia, quindi preferisco non farlo, come loro. A livello personale siamo tutti in difficoltà, tutti quelli che lavorano nell’ambito dello spettacolo non sono stati nemmeno considerati dallo Stato italiano. La cultura è l’identità di un paese, secondo me e tanti artisti. Con questa pandemia è anche giusto chiudere tutto, però bisogna dare un po’ di diritti a quelli che lavorano nell’ambito dello spettacolo; teatri chiusi e autobus pieni mi sembra un po’ assurdo.
Mi parlavi prima di un disco: state lavorando a un nuovo progetto?
Stiamo lavorando a vari progetti. Il primo disco è la conclusione della prima fase degli Al Raseef, che era il nostro viaggio per scoprire chi siamo e chi vogliamo essere. Adesso siamo in una fase un po’ diversa, stiamo sperimentando il nostro sound personale, cercando di creare un genere che ancora non esiste. Noi lo chiamiamo “arabrass”, la nostra anima araba, tutta la cultura che abbiamo dentro veicolata attraverso l’orecchio e gli occhi occidentali. Ognuno di noi ha il suo approccio, metodo e pensiero musicale personalizzato. Il prossimo progetto è proprio questo: mettere tutto il nostro, dare quasi la libertà completa alle proprie individualità, mettendo tutto in un contesto unico.
Foto dalla pagina Facebook del gruppo Al Raseef