
13 euro. È il rinnovo mensile per cui Federalimentare non vuole firmare il rinnovo del contratto nazionale, tenendo sospesi quasi 400mila lavoratori che pensavano a luglio di aver concluso almeno un rinnovo, che sembrava proprio poca cosa, ma si sa col COVID cara grazia lavorare. E invece tutto va a catafascio quando il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, di fatto commissaria Federalimentare e rinnega le trattative a cui aveva partecipato, cercando di convincere anche le altre organizzazioni datoriali e grandi gruppi come Barilla, Ferrero, Danone a ritirare la loro firma.
Sono più di 10 milioni i lavoratori in attesa di rinnovo – praticamente 4 su 5 segnalava il Cnel ad agosto – e quasi tutti sono appesi a una sola associazione padronale che non vuole firmare: Confindustria. Che ha deciso di portare a termine proprio ora, nella più grave crisi economica, la sua battaglia contro il contratto nazionale e non pagare nemmeno l’indicizzazione del salario all’inflazione.
È inutile ricordare quanto i salari e gli stipendi siano stati deprezzati e vilipesi in questi decenni – “i salari reali italiani più bassi di 10 anni fa”, titolava ad esempio Il Sole 24 Ore giusto un anno fa, mentre in Francia e Germania sono cresciuti del 7% e 11%, rispettivamente – anche nei periodi di governo di centrosinistra. E il cuore di salari e stipendi in Italia sono i contratti nazionali, perché su di loro si parametra tutto il mondo del lavoro, come in altri Paesi si fa col salario minimo. Quindi la partita è enorme e tocca le tasche di una fetta impressionante di popolazione.
Ma non solo, perché la richiesta degli industriali è ancora più radicale e utilizziamo le parole proprio del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi: “Certo che vogliamo i contratti, ma li vogliamo ‘rivoluzionari’; senza scambi novecenteschi tra orari e salari, con l’attenzione alla occupabilità della persona più che al posto di lavoro, con accordi locali o addirittura individuali invece che gli obsoleti contratti nazionali”. Praticamente un’invocazione dell’ottocento, più che del futuro. Inutile discutere.
E invece il governo ci discute eccome e quasi si scusa con gli imprenditori che urlano e strepitano contro il “sussidistan” di cui sono i primi beneficiari: dati alla mano, dei 112 miliardi messi a disposizione dal governo per contrastare gli effetti economico-sociali dell’epidemia, alle imprese in senso stretto è andato il 48%, sotto forma di agevolazioni, esenzioni, contributi a fondo perduto e garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari. Se aggiungiamo i 67 miliardi di fondi indiretti o – maliziosi che siamo – i 44 miliardi per il Fondo patrimonio della Cassa Depositi e Prestiti si sfonda il 65% del totale alle imprese.
E non basta. Perché quelli che erano un tempo gli industriali vogliono i soldi, quelli dei contribuenti, non per innovare, non per investire, ma perché i soldi sono l’oggetto della contesa, non l’innovazione o lo sviluppo, come la ricchezza è la misura del successo.
Prendete Carlo Bonomi, oltre ad essere amministratore di una azienda nel settore biomedico, presidente di Confindustria, che sono ormai il suo vero lavoro, è presidente di una società a controllo e capitale pubblico, quotata in borsa: la Fiera Milano S.p.A. Una nomina di peso con deleghe operative, varata ad aprile scorso, voluta dalla Regione Lombardia, l’azionista di riferimento. Una nomina scivolata un po’ sotto silenzio e che rappresenta, come scrive Vittorio Malaguti su L’Espresso, “un enorme conflitto d’interessi”. Politico e professionale. Oltre ai 107mila euro di emolumento annui. E il “sussidistan” signor presidente?