Uno sfondo nero con il numero 404 – page not found – e sotto le due date: 1966-1976, cioè inizio e fine della rivoluzione culturale secondo la narrativa dominante.
È questa l’immagine che ha fatto circolare ieri sui social media cinesi Phoenix New Media, che è un network di Hong Kong autorizzato però a trasmettere e pubblicare nella Cina continentale. Come a dire: non ci sono informazioni, non si parla di quel decennio “caotico”, “catastrofico”, anche secondo la versione ufficiale del Partito comunista che risale al 1981.
La rivoluzione culturale fu il tentativo di Mao Zedong di sconfiggere la burocratizzazione del Partito Comunista e al tempo stesso di ricollocare se stesso al centro della scena politica, scatenando le forze più radicali e più giovani della società cinese: le famose guardie rosse. Il 16 maggio 1966 il comitato centrale del Partito emanò una circolare con le idee di Mao sulla Rivoluziona Culturale: quella è considerata la data ufficiale del suo inizio, anche se il clima di fermento era cominciato ben prima.
Fu un movimento quasi religioso – si poteva, anzi si doveva distruggere e criticare tutto tranne Mao – che finì per inghiottire i suoi stessi protagonisti. Dopo aver scatenato le guardie rosse, Mao le spedì in campagna, per cui la vera e propria rivoluzione culturale dura tre anni, fino al 1969. Da lì al 1976 tengono banco soprattutto i conflitti all’interno del Partito, veri e propri intrighi di corte, con il protagonismo della futura “Banda dei Quattro”, contenuta però dallo stesso Mao e da Zhou Enlai, la misteriosa morte di Lin Biao nel 1971 e infine il grande ritorno di Deng Xiaoping, due volte epurato e due volte tornato.
Mao muore nel 1976 e nel 1981 di fatto il partito condanna la rivoluzione culturale, salvando però il buon nome di Mao. È lì che nasce la famosa formula di Mao “70 per cento bene, 30 per cento male”; ma oggi, pur senza dirlo a voce alta, pare che il giudizio unanime anche ai livelli alti del potere sia 60-40.
Il Partito di oggi è figlio di quella condanna dell’epoca del caos, in cui i figli si ribellarono ai padri, ci furono morti e vite spezzate.
I media, soprattutto anglosassoni, dipingono uno scenario in cui della Rivoluzione Culturale non si può parlare, punto. No, questa è propaganda uguale e contraria, la Cina non è la Corea del Nord.
La censura tiene d’occhio social media e media tradizionali, certo, ma in realtà se ne parla. Con caratteristiche cinesi, ovviamente, cioè cercando soprattutto di tranquillizzare e creare consenso: il Global Times – che è uno spin-off del Quotidiano del Popolo – è uscito nei giorni scorsi con un editoriale dicendo che “non c’è alcun rischio che quella storia si ripeta” e questo è probabilmente il messaggio che i cinesi si aspettano.
Quanto all’elaborazione storica, i media occidentali denunciano l’assenza di un vero dibattito, ma già da alcuni anni ci sono protagonisti di quell’epoca che ne parlano o sono autorizzati a parlarne: riconoscono le proprie responsabilità e chiedono scusa alle vittime. Abbiamo raccolto alcune di quelle testimonianze. Questa è una forma di elaborazione controllata, molto cinese, nel senso di un consolidato codice di comunicazione tra il potere cinese e il popolo.
Nel raccogliere testimonianze come quella di Wang Jiyu, “Heizi” (lo Scuro), abbiamo avuto netta la sensazione che lui fosse in qualche modo legittimato a parlare, raccontare, farsi carico delle proprie responsabilità, trasmettere il segnale che quella storia è una ferita, ma che non tornerà.
Il racconto della rivoluzione culturale non deve diventare destabilizzazione; deve, ancora una volta, organizzare il consenso.