Per apprezzare un’opera contemporanea, uno spazio stimolante, una relazione felice col contesto in cui viene presentata contano quanto l’opera in sé.
Una delle esposizioni più soddisfacenti che da questo punto di vista ci sia capitato di vedere nel corso degli anni a Dak’Art – la Biennale d’arte della capitale senegalese, la cui dodicesima edizione, apertasi il 3 maggio, proseguirà fino al 2 giugno – era stata nel 2006, nell’ambito dell’Off della manifestazione, una sofisticata mostra di incisioni su lastre di plastica trasparenti del camerunese Joël Mpah Dooh, allestita nel garage sotterraneo di un palazzo in costruzione, al Plateau, dalle parti – andando a memoria – dell’Hôtel de Ville.
Di mezzo c’era la Galerie Mam di Douala, Cameroun. Recidiva, quest’anno la Mam, sempre per l’Off di Dak’Art, ha presentato di nuovo una esposizione in un edificio in costruzione, l’Hôtel Hyatt, in avenue Sarraut al Plateau, proprio di fronte agli uffici della Biennale. In questo caso invece di scendere nell’interrato si sale a uno dei piani alti, dove le ampie vetrate sul retro del palazzo si affacciano sulla cupola del marché Kermel, mentre sullo sfondo si alzano le installazioni del porto.
Una cornice ideale per i soggetti delle grandi fotografie di Siaka Soppo Traoré, originario del Burkina Faso, nato a Douala, cresciuto in Togo e adesso dakarese di adozione. Traoré lavora sulle culture giovanili dell’abbigliamento, della performance di strada, della break dance, dello skate, ritratte nei loro quadri urbani che rappresentano bene l’espansione di Dakar, anche disordinata, informe, con l’incuria negli spazi pubblici e nel mantenimento dell’arredo urbano; ma col suo gusto iperrealistico nella rappresentazione dei personaggi e col suo raffinato uso del colore, privilegiando la luce del tramonto e il buio della notte, Traoré ne dà una raffigurazione che coglie anche la poesia dei nuovi scenari metropolitani della capitale: che il cemento a vista e l’ambiente aperto sull’esterno, mettendo i temi di Traoré nella giusta prospettiva, non fanno che esaltare.
La mostra presenta poi una serie di sculture in bronzo, due più grandi, diverse altre più piccole, del camerunese Hervé Yamguen: sono pezzi animati da una fantasia surrealista, un bestiario pieno di grazia e di lievità. Assieme ad opere di altri artisti camerunesi, fra cui disegni di Salifou Lindou, altre sculture di Yamguen sono poi esposte in una seconda mostra presentata dalla Mam a poca distanza, sul bordo della Corniche: che, per coerenza, la galleria di Douala ha allestito in questo caso in una palazzina d’epoca in ristrutturazione, la Villa 33, a cui, in sovrappiù, si accede passando tra gli operai alacremente al lavoro e i mucchi di sabbia del cantiere che sta ristrutturando l’hotel adiacente.
“Per le mie sculture in bronzo – ci spiega Yamguen – lavoro con degli artigiani camerunesi della regione di Foumban: io creo le forme, poi mi piace realizzarle con loro, che hanno una loro tecnica, un loro saper fare che conferisce al mio lavoro una qualità particolare. La serie di bronzi che presento nell’Off qui a Dakar è imperniata sul tema dei cantori del meraviglioso: rappresentano delle storie, i cui protagonisti sono uccelli, per me simbolo della fragilità umana ma anche di una ricerca fondamentale di libertà, di una evoluzione spirituale, della realizzazione di sé stessi. Le valenze simboliche degli uccelli sono presenti nella nostra tradizione popolare, come del resto nella mitologia di tutto il mondo: io me ne approprio, le personalizzo e le ancoro al sociale, facendole evolvere da uno spazio tradizionale ad uno spazio attuale.
Lei ha cominciato come pittore, poi si è dedicato alla fotografia e la scultura è la terza arrivata…
In realtà fondamentalmente sono un poeta, e pubblico delle raccolte di poesie, faccio anche molto disegno, e continuo con la pittura, e di tanto in tanto faccio anche delle performance, mentre invece ho smesso di fare fotografia: utilizzo diversi strumenti espressivi, tutto quello che mi permette di esprimermi, non importa con che mezzo, quando sento l’urgenza di utilizzare un certo mezzo lo utilizzo. Ma in effetti attualmente il mio lavoro è orientato innanzitutto verso la scultura, che è particolarmente adatta a rendere visibile un mondo immaginario.
Vive stabilmente a Douala?
Sì, sono nato e vivo a Douala, ma con molte connessioni con il mio villaggio, nel Cameroun occidentale: per ragioni di origini familiari ho preso il posto di mio padre e faccio parte degli alti notabili del Cameroun occidentale, e in quanto artista occupo anche delle funzioni tradizionali, e sono in carica assieme al capo del villaggio per gestire il destino del popolo e per altre funzioni rituali.
Legate a religioni tradizionali?
Sì, fondamentalmente legate ad una maniera di vedere il mondo che è propria della cultura bamileké, quindi al culto degli antenati, ad un modo di entrare in contatto con la natura, di vivere e di rispettar le leggi della vita.
A Douala c’è un ambiente artistico piuttosto interessante…
Certamente, c’è una effervescenza di artisti che gravitano attorno alla Galerie Mam e all’Espace Doual’Art, e quindi Salifou Lindou, Joël Mpah Dooh, Hervé Youmbi, Koko Komegne, Jules Wokam, dei giovani come Boris Nzebo o David Nkot, ce ne sono tanti! E poi Francis Soumegné che vive a Youndé, Pascal Marthine Tayou che è partito. Sono tutte persone con cui ci si conosce e ci si frequenta, e nell’incontro e nell’entusiasmo che ci scambiamo troviamo lo stimolo per lavorare, in un contesto che non è per niente facile.
Qual è il vostro stato d’animo?
Lavorare in un contesto in cui il presidente della repubblica Paul Biya ha ormai superato i trentatré anni in questa carica, è molto difficile: l’arte alla fine è anche una forma di dissidenza, perché non è semplice esistere, creare, permettere che il proprio immaginario sia fecondo dove le possibilità della vita, della libertà, sono spesso estremamente ridotte, dove dominano la povertà, la precarietà, la corruzione. Ad un certo momento bisogna prendere molta distanza dalle cose, se si vuole che le nostre fantasie si sviluppino, che la parte infantile di noi, questo seme fecondo che abbiamo, germogli.
Immagino che anche sul piano della vostra sopravvivenza individuale non sia facile: ricordo di avere intervistato più di dieci anni fa Soumegné, che mi diceva che faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, e vedo che anche un artista di grande talento come lui continua a non riuscire ad avere l’esposizione internazionale che meriterebbe…
No, non è facile: quando all’interno di un paese c’è un grande vuoto di richieste culturali, e gli artisti sono continuamente obbligati a battersi per cercare anche il riconoscimento all’estero – una cosa che certo bisogna fare anche per aprirsi al mondo – a volte questa difficoltà ad avere un ambiente che sostenga il tuo lavoro ti rende fragile. Ma credo anche che la nostra forza sia che questa maniera di resistere nella precarietà ci porta a riflettere sul nostro produrre arte in un contesto del genere, e anche per esempio sulla scelta dei materiali.
Lei ha delle opportunità all’estero, e anche fuori dall’Africa?
Sì, e direi che la maggior parte degli artisti che ho citato di tanto in tanto vanno all’estero, fanno delle residenze e delle esposizioni. Io per esempio ho fatto delle cose in Francia in Germania, anche altrove in Africa, per esempio ad Abidjan: per fortuna riesco a muovermi.
Fra gli artisti camerunesi c’è una forte e diversificata propensione per la scultura, una inclinazione che però purtroppo non esce molto a livello internazionale, forse anche perché il mercato internazionale dell’arte oggi chiede altre cose…
In definitiva noi siamo usciti da una tradizione di scultori. I nostri antenati sono stati dei grandi scultori, e noi abbiamo raccolto la loro eredità e continuiamo in questa direzione: per la maggior parte degli artisti che lavorano sulla scultura, vedendo la loro produzione si può anche intuire quale è la regione del Cameroun di cui sono originari. È una cosa legata ai nostri avi.