Lettera dal Direttore. Succede a Repubblica. Maurizio Molinari, in carica da tre settimane, l’11 maggio scorso scrive a tutte le redazioni e annuncia “il premio del Direttore”.
Lo assegnerà tutte le settimane al miglior giornalista che gli verrà segnalato dalle strutture di governo del giornale. I quadri segnalano e lui decide. Il premio consisterà principalmente in 600 euro lordi in busta paga.
Et voilà, il gioco è fatto: bentornati negli anni ‘50, nel paternalismo di casa Fiat, nell’esaltazione della gerarchia come unica relazione possibile sul posto di lavoro.
È tutto drammaticamente vero, ed è tutto molto importante. Accade nel più grande gruppo in Italia che edita giornali di carta e informazione digitale. Che idea di giornalismo c’è dietro il “premio del Direttore”? Che idea di relazioni sindacali si vuole trasmettere alla FNSI (sindacato giornalisti) e ai redattori e alle redattrici del gruppo? L’arrivo di Molinari è il segno di una svolta, l’avvio dell’era Elkann-Agnelli-Fiat nel gruppo che fu l’Espresso di Caracciolo-Scalfari-DeBenedetti. Una stagione, quella Elkann-FCA, in cui forse rivedremo apparire un nuovo collateralismo tra la grande industria e i settori più conservatori, di destra, della politica e della società italiana. Di tutto questo Memos ha parlato con Ida Dominijanni, giornalista e saggista, scrive su Internazionale e Huffington Post; e con lo storico e politologo Marco Revelli.
Cosa rappresenta l’introduzione di questo premio nei rapporti tra la direzione e i giornalisti di Repubblica? Che idea vi siete fatti ad una prima lettura di questa lettera?
Io l’ho avuta tramite Facebook due sere fa e la mia prima e durevole reazione è stata di pensare che fosse un fake da prendere a ridere. E invece non lo era. La cosa rilevante di questo premio è che ne viene data pubblica notizia sul sito di Repubblica, è qualcosa di cui la direzione va fiera. Io ho preso atto che i giornali sono ormai come le caserme, ci sono i soldati semplici che vengono segnalati al direttore dal caporale. Io continuo a sorridere all’idea di questa riffa alla fine della quale si vince il premio del direttore. Io ho lavorato per trent’anni in un quotidiano, Il Manifesto, e naturalmente l’esperienza non è paragonabile. Lì le regole erano tutt’altre, ma devo dire che in trent’anni di giornalismo una cosa così volgare non l’avevo mai vista. Mi sembra un’idea molto triviale.
Professor Marco Revelli, qual è stata la sua reazione al premio di Repubblica?
Esattamente uguale a quella di Ida Dominijanni. Ho pensato subito a uno scherzo. Mi sono fatto una risata e ho pensato “ecco come viene accolto il nuovo direttore di Repubblica per diminuirne il profilo”. Quando ha scoperto che era vero mi sono cadute le braccia. È una cosa da Corriere Dei Piccoli, non da un quotidiano con la storia che Repubblica. Ricorda un po’ il premio del parroco all’oratorio o quello del maestro alle scuole elementari.
Evidentemente riflette il punto di vista proprietario nei confronti dei media oggi in Italia, in particolare di quel gruppo. È lo stesso sistema che vigeva alla Fiat negli anni ’50 e ’60, quando era il caposquadra che assegnava i micro premi di produzione a proprio esclusivo giudizio, spesso premiando i ruffiani e penalizzando le persone con maggior dignità.
Ho ritrovato un po’ quello stile in questo atteggiamento che tratta un collettivo come una sorta di allevamento nel quale scegliere gli esemplari migliori.
Che modello di relazioni sindacali presuppone un fatto del genere?
Marco Revelli. Provo ad allargare un po’ lo scenario al di là dell’episodio che stiamo giudicando. L’operazione di conquista monopolistica del gruppo GEDI credo sia un’operazione che sta dentro un orizzonte regressivo. È un’operazione che punta ad arrivare attrezzati, da parte di poteri padronali forti, al dopo coronavirus e alla vita che dovrebbe riprendere. Ci sono gruppi proprietari che intendono presentarsi armati in questa fase per dettare le proprie regole in un mondo più duro nel quale l’obiettivo è prendere tutto. Prendere tutto nel nostro Paese, perché quell’operazione punta a ipotecare un quadro di governo nel quale solo gli interessi proprietari contino, solo gli investimenti per la crescita che sono poi il denaro regalato alle imprese e non quelli dell’assistenza e del sostegno alle famiglie. C’è un tesoretto di cui impadronirsi e vogliono arrivarci attrezzati per metterci le mani subito sopra. L’operazione è stata questa: poter influenzare l’opinione pubblica con una leva potente come quel gruppo multimediale che è appunto il gruppo GEDI. Dentro c’è questa idea dei rapporti sociali di tipo servo-padrone. L’idea è quella di far regredire il dipendente a una dimensione servile, e questo sta già avvenendo, nella quale se vuoi mangiare piegati e sgomita per i 600 euro che io direttore metto in palio e assegno a mio insindacabile giudizio.
È un po’ come se ci si stesse preparando al dopo Conte. Anche il sistema dei media si struttura e il gruppo Fiat Chrysler si posiziona e si prepara ad assetti futuri.
Ida Dominijanni. Io sono molto d’accordo con Marco Revelli. Qui stanno arrivando un sacco di soldi che dovremo restituire e invece di pensare seriamente ad un’operazione riformista in grande stile per rimettere in sesto un Paese che è stato massacrato da questo virus si pensa a impossessarsi del tesoretto. Attenzione però, perché magari ci fosse all’orizzonte l’operazione Draghi. Io non ci credo e penso invece che ci sia all’orizzonte un’operazione di respiro molto più corto che si chiama Confindustria: un governo della Confindustria, espressione diretta della Confindustria. Perchè? Perchè il modello lombardo di sviluppo è chiaramente messo in discussione da questa pandemia. Invece che tirarne le conseguenze per cambiarlo, c’è una parte del Paese che punta invece a confermarlo con i metodi più aggressivi possibili. Questo si è visto benissimo e si sta vedendo.
È mai possibile che questa lettera che istituisce il premio scateni simili discussioni e preoccupazioni? Sento già l’eco di qualche voce critica. Lei cosa risponde?
Marco Revelli. Beh, il diavolo si nasconde nei dettagli. Il detto popolare è assai vero. Siamo in presenza di un rischio di regressione e mi stupisco che non se ne abbia la percezione. È una regressione nei rapporti sociali, negli stili di comportamento e negli stili di comunicazione. Questa questa mortifera che ci è passata addosso ci resta impigliata. Possiamo rispondere con una cultura della vita che vuol dire pensare di andare davvero radicalmente oltre e fare in modo che niente sia più come prima perché quello che c’era prima ci ha portati al punto in cui siamo. Oppure possiamo chiuderci nella difesa dei rapporti di potere precedenti che inevitabilmente saranno peggiorati. È una cultura da medioevo che ritorna. Se non prevale una ventata di orgoglio e di dignità ne usciremo come un feudalesimo industriale di cui queste cadute di stile sono una espressione.