Pubblichiamo un articolo apparso sul Blog Kasava Call. Kasava è Castel Volturno, come lo pronunciano gli africani. L’autrice si chiama Djarah Akan. Anche questa è Italia.
Oggi ho visto un pullman e mi sono emozionata. Era blu, i vetri davanti scuri e due strisce bianche sotto. C’era scritto sopra CTP: Compagnia Trasporti Pubblici di Napoli. A lato dell’autista, un foglietto con su scritto M1B col pennarello.
Kwaku è un compaesano di mia madre che per guadagnarsi qualche spicciolo accompagna la gente a Lago Patria, il punto più vicino dove trovare un pullman per Napoli. Quando ha visto l’autobus, ha fatto un giro di telefonate per annunciare la buona novella: quasi c’entrasse il divino, nel grande ritorno della CTP sulla Domiziana.
Senza i pullman la Domiziana non sembrava nemmeno più abitata da africani. Non si vedeva anima viva ciabattare per la strada. Che tristezza.
Se viveste qui e non aveste altro modo per muovervi, campare, faticare, mi capireste al volo. Ma scrivo proprio per questo, per trascinarvi nel limbo di tutti i dannati della terra che ogni giorno sono costretti a fare affidamento sul trasporto pubblico.
Oggi ho capito che qui, a Kasava, facciamo tutti una vita di merda. Ma basta poco per tornare a sorridere, per respirare bene ed emozionarci. Basta vedere il Pullman: “the bus that don’t come, never!”
Vi chiederete: come è possibile emozionarsi per un autobus che passa una volta ogni quarantacinque minuti? Che nella maggior parte dei casi è strapieno, ed è sempre teatro di scontri grotteschi, storie straordinarie, sudore e ceffoni volanti?
Ve lo dico io, o per lo meno, ci provo. E’ dall’estate scorsa che la CTP ha raggiunto il picco più alto di inefficienza che sia mai stato registrato nella storia degli autobus in ritardo. Dico estate come se segnassi l’anno zero dell’era cristiana, ma non è che non ci fossero mai stati guai prima di allora. D’estate, per circa due settimane scomparvero i pullman. Un incubo.
Poi tornarono e fu un sogno. Che sogno! Poi sparirono di nuovo agli inizi di settembre, e avanti così, finché a un certo punto sparirono del tutto, lasciando a piedi non solo gli abitanti del Comune di Castel Volturno, ma tanti altri di cui non immaginavo nemmeno l’esistenza.
Il ritorno dell’autobus M1B è stato qualcosa di salvifico, la risposta a preghiere. Ma nel frattempo, cosa è successo alla gente che in tutti questi anni è riuscita a campare solo grazie a questo servizio, resosi involontariamente popolare e quasi semigratuito?
Ve lo dico io, o per lo meno, ci provo. Non so cosa abbiano fatto gli italiani per sopravvivere a questa catastrofe, ma so cosa hanno fatto le migliaia di africani che abitano a Kasava. Si sono riorganizzati, con un sistema di trasporti che comprende parenti, amici e chiunque metta a disposizione la propria macchina o il proprio furgoncino in cambio di qualche spicciolo. L’M1B non c’è, ma la vita deve andare avanti. E sopravvivere dipende strettamente dalla possibilità di emigrare giornalmente dalla periferia al centro.
“Bus don’t come, bra inside”: il pullman non arriva, vieni dentro. Lo riconosco dall’accento: in lingua twi bra significa “vieni”. Il giovane ha all’incirca trent’anni, sembra quasi che si diverta. E io sono contenta che almeno a lui non girino i coglioni in questa giornata che è buona solo perchè è arrivata a metà del suo percorso. Guida un furgoncino blu, mezzo arrugginito.
Mentre mi infilo le mani in tasca alla ricerca di qualche spicciolo, rifletto sul mio nuovo record di attesa per un pullman: quattro ore belle tonde e un romanzo patetico nella borsa, buono solo a rendere stabili i tavoli sghembi. Da Mondragone, dove staziona l’autobus che arriva fino a Fuorigrotta, non arriva niente. L’orizzonte è popolato di rattusi accaldati alla guida di Panda e Mercedes che rallentano, appena vedono muoversi qualcosa sul marciapiede.
Trovo un euro e cinquanta: l’uomo mi dice che va bene, lo sportello scivola indietro. In un furgoncino dove al massimo potrebbero entrare sei persone, ce ne sono stipate almeno una ventina. Tutti stretti, che si urtano, che vogliono solo raggiungere Lago Patria o Licola per arrivare a Napoli Centrale. Ridono, si tengono stretti gli zaini e a un certo punto mi scappa da ridere anche a me, e mi sento più leggera.
Lo sportello si chiude. Rischiamo di cappottarci e morire ammazzati tutti quanti: è una situazione pericolosa e ogni giorno le persone si trovano a viaggiare in questo modo. Ma di scelte ce ne sono poche, se sei povero. Non c’è poesia in tutto questo, né tanto meno nel dover rischiare la vita ogni giorno per andare a lavoro, stipati come sardine in macchine e furgoncini che esplodono per lo più di lavoratori.
Mi dico che è davvero una vita di merda, ma non si può lasciare dietro nessuno: anche se i furgoncini sono pieni da far schifo e pericolosi, fanno pur sempre del bene. A chi può permettersi poco, che è in fin dei conti è niente.
Qui badiamo a noi stessi, nonostante tutto. La comunità, anche se frammentata è dispersa, in questi momenti critici esiste e resiste, campando di azzardi ed ironia. Tornare a casa sani e salvi costa meno che rimanere seccati in qualche incidente.
Tutta la vita che si è venuta a creare attorno a Lago Patria e alla stazione della Cumana di Licola è organizzata, dinamica e soprattutto indicativa del fatto che la gente è viva e sa dove e come muoversi. Offre un racconto non di migranti allo sbaraglio, ma di cittadini ben svegli e consapevoli che il pubblico se ne frega dei loro bisogni.
Capite, adesso perchè l’M1B è così importante in questo posto che ha solo la CTP a collegarlo col resto del mondo? Capite perchè da oggi la gente parlerà più forte, e ricomincerà a scendere in strada, a passeggiare e a viversi di nuovo gli spazi? E’ essenziale riuscire ad abbandonare questo posto. E’ essenziale riuscire a tornarci. Ciò che conta è la possibilità: non importa che poi la si sfrutti o meno. Bisogna avere delle possibilità: che sia abbia una macchina o meno, che si abbia un euro e cinquanta o niente a danzare nelle tasche. Che si sia neri, o bianchi o fluorescenti, bisogna che miseria smetta di essere una possibilità.
Voglio poter gestire le mie gambe ed il mio tempo, vivere significa camminare e camminare significa vivere.
Dopo giorni e giorni lontani da tutto e tutti, il ritorno dell’M1B è ancora incredibile. Sotto sotto penso che sparirà di nuovo: le cose belle durano poco, l’azienda si è mangiata troppi soldi in questi anni. Succederà di nuovo un annunciato fallimento previa sparizione degli autobus, ma adesso non voglio pensarci troppo. Qui, da casa mia, posso vedere la strada. E mentre scrivo, fuori dal balcone li sento borbottare, sento gli autobus scendere da Napoli e risalire a Mondragone: piano, ogni ora e mezzo.
Solo i morti stanno fermi, obbligati in una buca per sempre. I vivi sono vivi perchè si alzano. E meglio ancora, se lasciati liberi camminano!
Autrice: Djarah Akan. Dal Blog Kasava Call
Djarah Akan e Roberto Russo (in arte Ninguèm Viù) crescono a Castel Volturno, cittadina che si affaccia sul mare, vicino a Napoli. Sono entrambi ventenni: Djarah ha la passione per la scrittura, Roberto quella per la fotografia. Sono stanchi di articoli fuorvianti e scoop giornalistici che hanno la pretesa di raccontare la “malavita” di un territorio ferito dalla camorra, dalla disoccupazione e dall’abusivismo. Così, un anno fa, decidono di aprire un blog che ha lo scopo di raccontare in modo differente le vite diverse e contraddittorie di Castel Volturno. Gli articoli nascono da eventi giornalieri. Sono stralci di vita quotidiana con cui gli autori – attraverso scatti fotografici e racconti – vogliono restituire un po’ di dignità al posto che abitano e vivono. Il blog prende il nome dalla parola Kasava, che significa “casa” ma anche Castel Volturno, pronunciato alla maniera dei cittadini africani che da molto tempo abitano la zona. “Kasava Call” dunque, Kasava chiama. L’intento di questo blog è lanciare una chiamata a chi non è solo mosso dalla voglia annusare il marcio, ma anche di scoprire la vita che pulsa e resiste, tra il mare e la terra di Castel Volturno.