A Milano almeno 300mila lavoratori costretti a muoversi per lavorare in aziende ed imprese non essenziali. E i controlli? Non ci sono.
Meno “passeggiate”, meno jogging, parchi chiusi. Il governo ha deciso di stringere ancora le maglie nei confronti dei comportamenti individuali, con l’obbiettivo di colpire chi esce di casa senza un motivo valido e frenare la diffusione del coronavirus. I provvedimenti però continuano ad ignorare il grosso degli spostamenti non necessari: quelli legati a chi è costretto a spostarsi per lavorare in quei settori ritenuti non essenziali dai decreti del governo.
La gestione di questi settori è stata delegata all’accordo tra governo, sindacati ed imprese, delegando di fatto alla contrattazione ed ai rapporti di forza nelle aziende sia la decisione di chiudere, sia l’applicazione delle misure di sicurezza e tutela di chi lavora.
Ne è nata un’ondata di scioperi che ha attraversato le imprese da nord a sud, laddove la presenza del sindacato è radicata e conflittuale, e che ha imposto la chiusura a molte imprese “non essenziali“.
È successo per lo più in grandi aziende, mentre in piccole e medie imprese, dove il sindacato è meno tollerato dagli imprenditori, si è spesso continuato a lavorare come nulla fosse, nella totale indifferenza delle autorità pubbliche: né il governo, né le regioni, hanno preso provvedimenti restrittivi. Il presidente di Confindustria Lombardia è arrivato a definire “irresponsabili” gli scioperanti.
Il caso più lampante è stato quello di Bergamo, dove le pressioni degli industriali sulle autorità, hanno fermato la pur invocata creazione di una zona rossa attorno ad uno dei focolai più aggressivi del COVID-19, con i risultati drammatici in termini di contagi e di morti che purtroppo conosciamo. Il 28 febbraio Confindustria Bergamo diffondeva un video di rassicurazione destinato ai partner esteri, con un titolo che oggi suona sinistro e di pessimo gusto: “Bergamo is running”, Bergamo sta correndo.
Quanti sono i lavoratori “non essenziali” costretti a lavorare?
Una stima a livello nazionale è estremamente difficile, ma numeri più precisi si possono trovare analizzando i singoli territori. Emblematico è il caso di Milano: “La diga che non deve cedere”, pena l’esplosione del sistema sanitario.
Eppure, mentre polizia, vigili e cittadini indignati danno la caccia al runner o alla signora che accompagna il cane, ogni giorno nell’indifferenza generale 300.000 lavoratori sono costretti dalle loro aziende a spostarsi per svolgere lavori non essenziali.
La stima è della Camera del Lavoro di Milano, che insieme a Radio Popolare ha elaborato i dati. Il calcolo lo spiega Antonio Verona, responsabile del mercato del lavoro della CGIL di Milano.
Ogni giorno nell’area metropolitana di Milano sono circa 1.460.000 i lavoratori attivi. A questo numero ne vanno sottratti circa 400.000 che rientrano in quei settori commerciali e di servizi che sono stati bloccati dai decreti del governo.
Altri 600.000 sono gli addetti alle filiere necessarie: alimentari, sanificazione e pulizie, medico sanitarie. Restano 460.000 lavoratori di imprese non necessarie. Se stimiamo in circa 150 mila gli addetti in smart working o aziende che hanno spontaneamente chiuso, si arriva a quel numero: 300mila persone che ogni giorno sono costrette a muoversi dai loro datori di lavoro, col mezzo privato o affollando gli autobus, venendo così a contatto con altre persone e arrivando poi ai luoghi di lavoro. Quanti di questi ogni giorno affollano i mezzi pubblici?
Difficile dirlo, anche qui non possiamo che ragionare per stime, con un alto margine di errore – certamente al ribasso – che portano a calcolare in circa 150mila i “lavoratori non essenziali” che usano il mezzo pubblico.
Il rischio è doppio: sia per i lavoratori, sia per chi viene a contatto con loro perché costretto invece a spostarsi per necessità. E questi lavoratori sono a loro volta doppiamente in pericolo: sia negli assembramenti cui sono costretti, sia nei luoghi di lavoro dove spesso le misure di sicurezza non vengono rispettate.
“In treno da Bergamo, dal cuore del focolaio”. Le testimonianze e le denunce arrivate a Radio Popolare
Dopo i dati diffusi da Radio Popolare in collaborazione con la Cgil di Milano, sono arrivati tante testimonianze, in molti casi angoscianti.
Semilavorati per mobili, costruzione di banconi per bar e gelaterie, placche per le prese elettriche, nautica, fabbriche di ascensori, al settore metalmeccanico. Lavoratori che si domandano il senso di portare avanti queste produzioni in un momento come questo, impauriti di contagiarsi e contagiare i propri cari e colleghi.
Nord di Milano, ad esempio: azienda che produce pezzi per gli scarichi delle automobili. Spostamenti da e per il capoluogo, con treno e mezzi pubblici, che passano da zone focolaio come Bergamo, Lodi, Cremona. Con le mascherine arrivate solo al 18 marzo e distribuite solo a coloro che lavorano “a contatto”, come se in fabbrica fosse possibile evitare rapporti ravvicinati. Sciopero dei lavoratori che non è servito a convincere l’azienda a chiudere.
Oppure, sempre a nord di Milano, ancora metalmeccanico. Motori per industria e mezzi marini. È la FPT Industrial del gruppo FCA, che aveva già deciso che la fabbrica doveva chiudere entro l’anno. Ma che deve proprio lavorare in questi giorni, anche qui con le mascherine distribuite solo ad una parte dei lavoratori. “Si lavora col doppio disagio di un impiego che non ci sarà più e con la paura del contagio” racconta un operaio, che insieme ai colleghi ancora provano a convincere l’azienda a non riaprire dopo alcuni giorni di stop per adempiere alle misure di sicurezza.
“Non avete le mascherine? Mettetevi la sciarpa”
“Facciamo ascensori, niente mascherine perché possiamo stare sufficientemente lontani secondo i capi“. O ancora: “Sto lottando con tutte le mie forze per garantire sicurezza in azienda. Ma ammetto che in questa vicenda non esiste sicurezza sufficiente per metterci al riparo da eventuali rischi. Spero di convincerli a chiudere“, racconta un lavoratore del settore nautico.
Siamo sempre in Lombardia, tra le centinaia di migliaia costrette ogni giorno a spostamenti di massa con auto, treni, autobus per lavorare in aziende di filiere non essenziali.
I racconti ci portano in una fabbrica di autoricambi dell’hinterland di Milano. Decine di persone che arrivano con mezzi, o in automobile insieme, nell’angoscia di avere qualche linea di febbre. “Non ci hanno dato nulla, una boccia di sapone in reparto, il disinfettante ai badge. Niente mascherine, le ha solo chi se le porta. Nei consigli per la sicurezza, ci hanno scritto: se non avete la mascherina mettetevi la sciarpa“.
“Aprire o chiudere? È un calcolo economico”
“Fermiamoci per la vita. Sospendere tutte le attività non essenziali e indispensabili alla sopravvivenza” è l’ultimo appello lanciato dai sindacati in Lombardia, ma le istituzioni sembrano sorde. Alcune Regioni come la Campania o l’Emilia-Romagna non hanno atteso il governo per “stringere” sulle passeggiate. Ma si continuano a lasciar aperte le imprese non essenziali.
L’ultimo è stato il Friuli Venezia Giulia: parchi chiusi e supermercati ad orario ridotto, fabbriche a pieno ritmo.
Maurizio Marcon è il segretario regionale della Fiom: “L’80% della metalmeccanica produce beni che in questo momento non rientrano nelle filiere essenziali. Per la maggior parte beni intermedi. Questi, in particolare, sanno perfettamente che se non si fermano ora, saranno costrette a farlo più avanti di fronte al rallentamento del mercato, trovandosi a smaltire le scorte di quel che stanno producendo. Ad esempio, chi ha scelto di non chiudere, penso a tanto nord est ma anche Lombardia che produce per la Germania- sta iniziando a farlo ora perché anche i tedeschi si stanno fermando, o perché, al contrario, non stanno arrivando pezzi da altri paesi. Ma è una scelta di profitto, non di salute: il calcolo che stanno facendo gli imprenditori è proprio questo: quando gli converrà di più fermarsi“.
Molti pensano che sarà più conveniente farlo più avanti: ma in questo calcolo puramente economico, ci sono di mezzo quelle centinaia di migliaia di persone costrette a lavorare a contatto, spostarsi, prendere mezzi.
I controlli inesistenti
L’altro buco nero è quello dei controlli, anche qui è palese la disparità di approccio: dalle campagne martellanti ed a reti unificate sui comportamenti individuali, al silenzio sulla responsabilità delle imprese.
L’accordo tra governo-imprese sindacati non impone un controllo terzo, perciò si va in ordine sparso. E così, se in una settimana polizia, carabinieri, finanza, vigili urbani, ed ora pure i militari hanno controllato oltre un milione e mezzo di persone negli spostamenti in strada e quasi centomila esercizi commerciali, le imprese controllate di cui si ha notizia risultano essere qualche decina, perse tra i trafiletti dei giornali locali.
Si ha conoscenza di controlli delle aziende sanitarie in imprese marchigiane – sopralluoghi ma previa telefonata di avviso – ed in Veneto, sempre nell’ordine delle decine.
La via della diffusione del virus, nell’indifferenza delle istituzioni che dovrebbero decidere, nella consapevolezza di chi ha fatto pressioni per non perdere profitti, sta passando soprattutto da qui.