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- Tratto dal podcast Cultura |
È in corso allo Spazio Forma Meravigli di Milano la mostra fotografica interamente dedicata al grande fotografo italiano Gianni Berengo Gardin. La mostra, “Gianni Berengo Gardin – Come in uno specchio“, è stata inaugurata l’11 febbraio e resterà aperta fino al 5 aprile 2020.
Ne abbiamo parlato proprio col protagonista, Gianni Berengo Gardin, nel giorno dell’inaugurazione. L’intervista di Tiziana Ricci per Cult.
Le foto sono più o meno sempre le stesse, la cosa belle sono i commenti degli intellettuali italiani. Mi ha lusingato tutto quello che hanno detto, è un grande riconoscimento alle mie fotografie e alla fotografia italiana in generale. Che questi personaggi di solito difficili da raggiungere abbiano fatto dei commenti positivi è un grande omaggio alla fotografia italiana.
Hai fatto una grande battaglia contro le grandi navi a Venezia.
Ho fatto una piccola battaglia. La grande battaglia la sta facendo il comitato No Grandi Navi, un’infinità di veneziani che non vogliono più che passino le grandi navi a Venezia. O meglio, non è che non vogliano più le grandi navi a Venezia, vogliono solamente che facciano un altro giro per arrivare dove arrivano adesso, non passando per il canale della Giudecca e per il bacino San Marco.
Ti ho fatto questa domanda perché mi sembra un grande esempio di come la fotografia abbia una grande forza di denuncia, tanto che hai avuto qualche difficoltà a fare la mostra a Venezia.
Inizialmente il sindaco di Venezia mi aveva proibito la mostra. Io mi sono molto arrabbiato perché mi ha insultato sui giornali locali. Probabilmente lui non è stato eletto dai veneziani, ma dalla gente di campagna che fa parte della provincia. Non mi conosceva, ma io mi sono imbestialito dopo quella censura. Col senno di poi, però, gli devo essere molto riconoscente: se non mi avesse censurato sarebbero andati a vederla 100/200 persone, così solo nei primi due giorni ci sono stati 1.500 visitatori paganti. Tutti i giornali italiani mi hanno parlato e anche i giornali stranieri hanno fatto lo stesso.
Ho visto qui anche le foto del progetto sui manicomi. Come era nato tutto?
Inizialmente io e Carla Celati eravamo andati solo a Gorizia. Lì c’era Basaglia che stava trasformando il manicomio. Il lavoro è piaciuto moltissimo anche a Basaglia quel grande successo ci ha spinto a fare altri manicomi, non solo Gorizia ma Firenze, Ferrara e Italia del Nord. Ricordo che Basaglia aveva voluto che andassimo a Losanna a fotografare il manicomio distrettuale per fare un confronto, ma poi rinunciò perché quel confronto era davvero penoso. A Losanna avevano anche la piscina e il campo da tennis.
Per te è giusto dire che la fotografia ha sempre unito etica ed estetica?
Sì, a me interessa meno l’estetica e più l’etica. Come diceva Ugo Mulas, una buona fotografia deve raccontare qualcosa. La foto di un tramonto tecnicamente perfetta è la solita foto di un tramonto. La foto, invece, deve denunciare o raccontare qualcosa.
Con le nuove tecnologie che rapporto hai?
Pessimo. Sono ancora a pellicola. Non ho niente contro il digitale, ma lo trovo inutile. Il vantaggio del digitale è che una foto appena fatta puoi spedirla a New York. A me se la vedo dopo una settimana non cambia niente. Quello è un vantaggio per chi fa sport o attualità. L’altro vantaggio è la possibilità di fotografare al buio, però diventa anche un fatto negativo: le foto sono troppo secche e troppo nette. Adesso fanno le macchine digitali con la grana che assomiglia alla pellicola. E allora tanto vale farla con la pellicola. E poi io sono contrario alla manipolazione fotografica nelle foto di reportage perché falsano la notizia. Una foto taroccata di reportage non è più una foto, ma un’immagine. Devo sapere se è taroccata o no.
Sempre bianco e nero?
Sempre bianco e nero. Sono nato col bianco e nero e non mi ha mai tradito. E per le foto che faccio credo sia più efficace il bianco e nero.
Foto dalla pagina Facebook di Fondazione Forma per la Fotografia