È morto Neil Peart e con lui si sta estinguendo sempre più la notevole pletora di grandi batteristi rock che gli anni dei settanta ci hanno regalato.
Personaggio lontano dallo stardom e dai comportamenti tipici di certe rock band da stadio, Peart ha calcato le scene per 40 anni macinando dischi (19, per la precisione), sempre con lo stesso gruppo, il trio canadese dei Rush, con un inconfondibile ed educato garbo, fino al suo ritiro ufficiale di qualche anno fa.
Austero e compunto, Neil Peart era anche l’autore creativo dietro a praticamente tutte le liriche del suo gruppo.
I testi riflettevano i suoi molteplici e sfaccettati interessi letterari (incluso uno sbandamento poi rinnegato per Ayn Rand) e gli valsero il nomingnolo di Professore, oltre tutto pare che furono proprio i suoi compagni di band a chiamarlo così.
Ritiratosi per motivi di salute nel 2015, Neil Peart si lascia alle spalle una storia personale difficile con la morte in successione dell’allora unica figlia e della prima moglie alla fine degli anni novanta. Segue un periodo di crisi che culmina in un infinito viaggio in motocicletta lungo la dorsale delle due Americhe, storia mirabilmente raccontata in un suo libro qualche anno dopo,
Il lavoro batteristico di Peart inizia dove finiva Keith Moon: meticoloso, tecnico ed estremamente versatile, Neil passava con disinvoltura da groove prettamente rock, a poliritmi progressivi, sonorità etniche, jazz e persino pad elettronici.
Non meraviglia che Peart fosse uno, che a stardom ampiamente raggiunto, cercasse sempre maestri di batteria capaci di insegnargli quel qualcosa in più che ha sempre portato sui palchi di tutto il mondo.
Possiamo dibattere a lungo sulla progressività di un gruppo come i Rush, quello che è certo che con lui scompare l’anima più eclettica, lirica, tecnicamente brillante e pertanto autenticamente progressive del gruppo.