Chi si aspettava l’effetto ‘Bolognina’ è rimasto deluso. Zingaretti si è presentato sul palco della Società Umanitaria di Milano quando nelle edicole erano ancora calde le copie del giornale che riportava una intervista in cui il segretario del Partito Democratico diceva tra virgolette: “Vinciamo in Emilia-Romagna, e poi cambio tutto: sciolgo il Pd e lancio il nuovo partito…”
E invece la formula con cui Zingaretti precisa le sue parole è un classico del linguaggio della politica tradizionale: “Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo“. Che tradotto significa: il Pd rimane il Pd, casomai proviamo a cambiare l’organizzazione e a fare entrare soggetti e forze che oggi sono fuori dal partito.
Per dire, a Milano Zingaretti non ha nemmeno accennato alla data del congresso, appuntamento che, nel caso di un progetto di trasformazione ambizioso, rappresenterebbe il passaggio finale. E il segretario non ha esposto idee concrete per dare forma al cambiamento evocato. Le formule alla moda in questo periodo non sono mancate: green new deal, industria 4.0, rivoluzione digitale.
Oltre però non è andato.
Anche su quali dovrebbero essere i soggetti a cui aprire il partito, maglie molto larghe. Con una operazione “alla sardina”, Zingaretti ha descritto il perimetro del ‘partito nuovo’ contrapponendolo alla cultura “delle destre”: “Noi costruiamo una proposta contro l’odio delle destre. Proteggere le persone significa dare loro una prospettiva migliore“.
Messa così, potrebbero sentirsi chiamati pezzi di mondo che stanno a sinistra del Pd, pezzi di mondo delle sardine stesse, e anche pezzi di mondo che stanno a destra del Pd, “magari pescando tra chi potrebbe cominciare a essere deluso da progetti come quello di Renzi che non stanno decollando” ragionava alla fine del discorso un senatore accorso a Milano per l’occasione.
Un Pd ‘maggioritario’ quindi, che sogna di tornare a essere ‘egemonico’ nel campo vasto del centrosinistra ma senza addentrarsi nei programmi e nelle proposte. È la sintesi dell’operazione che sta tentando il segretario del Pd. Del resto, la parola chiave l’ha pronunciata quasi subito: unità.
Zingaretti deve tenere insieme un partito dove, anche dopo la scissione di Renzi, convivono culture diverse, da chi guarda a sinistra a chi, come Gori, è più vicino al campo liberale e già dopo la sconfitta alle regionali in Umbria premeva per una resa dei conti interna. Per ora rinviata. Ma la scadenza del 26 gennaio, con le elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria, si avvicina.
“Dopo le elezioni, il progetto” annuncia Zingaretti. Dopo le elezioni, non è solo nel Pd che si dovranno vedere le carte. E’ anche nel Governo che si dovranno fare i conti. Se il Pd soffre il Movimento 5 Stelle non ride, le tensioni attorno al ruolo di Di Maio ne sono la prova.
Dal 27 gennaio le prudenze pre-elettorali non saranno più il pretesto per rinviare discussioni, confronti e anche scontri sulla linea politica da tenere a Palazzo Chigi. E difatti la cosa più concreta che ha detto Zingaretti dal palco di Milano è l’annuncio di un seminario tra tutti i dirigenti del Pd, dai ministri ai responsabili del partito, da tenersi lunedi e martedi prossimi, “per una agenda di Governo“.
Che è come dire, cerchiamo di arrivare preparati al 27.
Foto dalla pagina ufficiale di Nicola Zingaretti su Facebook