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Tratto dal podcast
Due di due di ven 10/01 (seconda parte)
Sport | 2020-01-10
Tutto il calcio minuto per minuto, l’iconica trasmissione radiofonica di Rai Radio 1, compie 60 anni e per celebrare questo unico e importante traguardo abbiamo fatto quattro chiacchiere con una delle voci storiche del programma ideato da Guglielmo Moretti, Roberto Bortoluzzi e Sergio Zavoli, il giornalista ed ex cronista Riccardo Cucchi.
L’intervista di Florencia Di Stefano-Abichain e Disma Pestalozza a Due Di Due.
La grande fortuna, che sto scoprendo dopo aver smesso di lavorare, è aver fatto parte della grande famiglia di Tutto Il Calcio ed essere diventati, inconsapevolmente, parte delle famiglie degli italiani. Eravamo voci che entravano in casa la domenica o lungo le autostrade durante le gite domenicali. Questo è molto bello.
Siete stati parte della storia italiana. La trasmissione ha rappresentato un’innovazione anche da un punto di vista tecnico: avere 10 inviati sui campi tutti collegati insieme, che entrano l’uno sull’altro mantenendo una pulizia senza accavallamenti.
Questa è la ragione per la quale la trasmissione vive ancora oggi malgrado ormai si viva in un tempo di piattaforme televisive e di immagini. La formula è vincente. Io continuo a pensare che l’idea geniale sia stata quella di aver creato la prima all news della storia dell’informazione italiana. Oggi siamo pieni di all news per fortuna, ma Tutto il Calcio è stata la prima occasione nella quale qualcuno ha sperimentato finestre che si aprivano e si chiudevano su una realtà in evoluzione e nella quale la breaking news era rappresentata dal gol.
Avete anche segnato un tipo di professione molto specifica. Quando non si poteva entrare con le telecamere negli spogliatoi o non c’erano la moviola in campo o il VAR, voi dovevate davvero dipingere una partita che non si poteva vedere, ma solo ascoltare.
È un talento puro o si può imparare?
Credo che sia necessario avere un talento naturale. Bisogna avere qualcosa nel DNA, che da solo come in tutte le cose della vita non è sufficiente.
Io sono sempre stato convinto che fino all’ultimo secondo passato al microfono avrei avuto qualcosa da imparare, è un’evoluzione continua. Il grande problema di un radiocronista è quello di non essere più veloce o più lento del pallone. Dobbiamo essere SUL pallone: il numero di parole che pronunciamo deve essere misurato al percorso che il pallone fa da un punto all’altro del campo, da un piede all’altro del giocatore. In quel percorso noi non dobbiamo essere né davanti né dietro il pallone. Dobbiamo misurare la quantità di parole necessarie per dire quello che dobbiamo dire.
Per quanti anni sei stato la prima voce di Tutto il Calcio?
Dal 1994. Sono entrato in RAI nel 1979 per concorso e ho fatto tutti i passaggi di preparazione. Ci insegnavano anche a pronunciare le parole, qualunque inflessione dialettale era inaccettabile. Io ho avuto come insegnante il grande Arnoldo Foà, che mi ha insegnato ad usare il diaframma e pronunciare bene le parole. Prima di andare al microfono sono passati degli anni. La prima partita l’ho fatta nel 1982, poi piano piano sono entrato nella grande famiglia di Tutto il Calcio e nel 1994, dopo il pensionamento di Sandro Ciotti, è toccato a me.
Quali sono i primi consigli che ti hanno dato Enrico Ameri e Sandro Ciotti?
Erano un’altra generazione, loro mi hanno insegnato molto sul lavoro, ma ho dovuto rubare. Come succede ancora oggi in una bottega artigiana, quando entra l’apprendista e si trova di fronte il maestro cerca di imitare i suoi gesti ed imparare copiando. Così abbiamo fatto anche noi. Loro raramente ti insegnavano qualcosa, erano molto severi e distanti rispetto a noi. Sandro Ciotti mi disse “ricordati sempre di portare con te uno zaino immaginario pieno di parole. Più parole conterrà quello zaino, più sarai pronto ad usare quella giusta quando ti servirà per rendere bella la tua radiocronaca“.
Lui mi dava un insegnamento legato al lavoro, ma poi col tempo ho capito che mi ha dato un insegnamento di vita. Più parole conosciamo, più siamo liberi e più siamo in grado di capire la realtà.
Cosa ti piace della nuova generazione di cronisti?
C’è una bella scuola per fortuna, ma credo che ci sia molto di buono anche all’esterno della radio. Ci sono tantissimi colleghi, anche delle piattaforme televisive, che sono bravi e sanno fare il loro mestiere. È difficile per me esprimere giudizi: ogni epoca ha i suoi narratori. C’è stata l’epoca di Nicolò Carosio, che oggi non sarebbe proponibile, c’è stata quella di Ameri e di Ciotti. Credo che ogni epoca abbia i suoi narratori giusti rispetto alla percezione che si ha dello sport. Cambia il calcio, cambia il linguaggio, tutto si evolve.
Foto dalla pagina ufficiale di Riccardo Cucchi su Facebook