È ancora in sala Citizen Rosi, il documentario presentato fuori concorso a Venezia 76 che ripercorre il cinema e la vita di Francesco Rosi profondamente legati alla storia dell’Italia e gli eventi più significativi del dopoguerra e non solo.
L’attrice Carolina Rosi, figlia del grande maestro e qui voce narrante e regista insieme a Didi Gnocchi, ci racconta il lungo lavoro che è stato fatto per realizzare Citizen Rosi e il metodo di creazione che ha sempre contraddistinto Francesco Rosi.
L’intervista di Barbara Sorrentini a Chassis.
Partirei dalla fine, dal film La Tregua. Tu stavi lavorando con lui e nel documentario raccontate dell’incontro che Rosi, tuo padre, ebbe con Primo Levi. È un film ancora oggi importante perché l’antisemitismo esiste ancora, così come tutto quello che ha raccontato il cinema di Rosi. È stato anticipato, denunciato, rivelato e svelato, ma ancora si ritorna su quei temi.
La tregua è stato un film molto faticoso, molto bello. Mio padre non incontrò personalmente Primo Levi, ebbe delle conversazioni telefoniche con lui in un momento molto buio della sua esistenza e da lì a poca distanza Primo Levi decise di porre fine alla sua vita. Da lì in poi mio padre ha avuto un bellissimo, sempre telefonico, con la sorella di Primo Levi.
Il documentario parla di mio padre e parla del rapporto con lui, ma anche di cinema e soprattutto del nostro Paese prendendo come spunto quello che mio padre aveva già sottolineato e denunciato in passato. Questi film, chiamiamoli politici, sono sempre avvenuti a dieci anni dai fatti, non erano film di cronaca o di mera spettacolarizzazione diciamo di un evento. Erano fonte di profondi e di profonde riflessioni e analisi che volevano portare lo spettatore a trarre le proprie conclusioni e a riflettere su determinati fatti.
Partendo da questi film e mettendoli in ordine non cronologico per come sono stati girati, ma rispetto ai fatti dell’Italia, abbiamo tentato di raccontare quello che era successo in questi ultimi quarant’anni. Gli interlocutori di questo documentario non sono solo dei cineasti, ma sono anche dei magistrati, dei giornalisti e degli scrittori che ci aiutano in qualche modo a tirare le fila di quello che è successo in questo Paese.
A tirare le fila con tè ci sono anche Roberto Andò, Furio Colombo, Gherardo Colombo, Roberto Saviano, Giuseppe Tornatore e anche Didi Gnocchi.
Esatto. Didi è la donna che insieme a me l’ha fortemente voluto, costruito, protetto e scritto. È quasi la mente, io sono l’anima emotiva e legata inevitabilmente non alla figura solo del maestro di cinema ma anche di padre. Lei essendo una giornalista ha uno sguardo meno di parte e più obiettivo. C’è anche un aspetto sentimentale al quale io non posso prescindere. Io avevo un rapporto molto speciale con quest’uomo che era sì maestro nel senso di lavoro, ma avevamo un rapporto quasi difficile da raccontare.
I film di Francesco Rosi a cui avete dedicato molto tempo, penso a Salvatore Giuliano o Il caso Mattei, sono film che hanno agitato il sistema, sono entrati nel momento storico e politico lasciando un segno forte anche nel corso degli eventi storici e politici. Come viveva lui questo fatto?
Io penso che lo vivesse come un dovere. Penso che tutto il suo lavoro sia stato incentrato su delle riflessioni che facevano sì che da un gesto o una situazione ne seguisse un’altra. In qualche modo ha inventato un nuovo modo di fare cinema, perché Salvatore Giuliano, a parte essere un ritratto cinematografico accurato sui fatti e che ha subìto una censura, è stato anche un film che ha avuto un linguaggio cinematografico diverso che poi ha ispirato anche altri.
Era un uomo che sentiva che la sua arte doveva essere messa a servizio della società nella quale lui viveva. Il porre luce senza mai cavalcare una tesi, ma lasciando delle ipotesi più o meno accertate, era quello che serviva a far sì che le notizie e le riflessioni che lui in prima persona faceva potessero portare a una conoscenza maggiore e una riflessione maggiore, così che la gente potesse indipendentemente trarre la propria conclusione su come erano andati i fatti.