Hillary Clinton e Donald Trump. E’ il verdetto che esce da questo ennesimo martedì di voto negli Stati Uniti.
La Clinton conquista quattro stati su cinque – Ohio, North Carolina, Florida, Illinois – e lascia al senatore Bernie Sanders soltanto il Missouri.
Nel discorso ai suoi sostenitori a West Palm Beach, in Florida, Clinton ha parlato ormai da candidata ufficiale del partito alle elezioni di novembre, e si è rivolta direttamente al suo più probabile rivale, Donald Trump: “Quando sentiamo un candidato alla presidenza dire che vuole rastrellare 12 milioni di immigrati, quando lo sentiamo dire che vuole proibire ai musulmani l’entrata negli Stati Uniti, quando dice di appoggiare la tortura – tutto questo non lo rende più forte, lo rende il candidato sbagliato”.
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Il vantaggio della Clinton su Sanders, in termini di delegati, appare ormai incolmabile. Il voto di ieri dà comunque un verdetto importante anche in termini politici. L’ex segretario di stato dimostra di saper conquistare non soltanto il voto dell’elettorato afro-americano, ispanico, delle minoranze che sinora l’hanno favorita un po’ ovunque; ma anche quello della working-class bianca, dei settori di elettorato degli Stati del Midwest industriale, operaio.
Il team di Bernie Sanders reagisce alla sconfitta dicendo che gli Stati favorevoli alla Clinton sono ormai passati, che d’ora in avanti si combatterà in aree più liberal – California e Wisconsin. Se pure il senatore mantiene, a una prima lettura dei flussi elettorali, un forte appeal presso i giovani e gli indipendenti, la matematica non gli offre molte speranze. Il vantaggio della Clinton su Sanders è tre volte superiore rispetto a quello che aveva Barack Obama su di lei nel 2008.
Il risultato tra i repubblicani ha due facce. Da un lato, quella del trionfo per Donald Trump. E’ un trionfo soprattutto il vantaggio di 19 punti su Marco Rubio in Florida. Trump vince in modo largo in tre Stati – oltre alla Florida, l’Illinois e il North Carolina – e combatte all’ultimo voto con Ted Cruz in Missouri. Gli sfugge soltanto l’Ohio, che va al governatore dello Stato, John Kasich.
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L’altra faccia del voto repubblicano è però quella dei numeri. Con ogni probabilità, Trump non riuscirà ad aggiudicarsi la maggioranza assoluta, e quindi alla Convention di luglio, a Cleveland, si aprirà una battaglia su come sottrargli i delegati, per spostarli magari su Ted Cruz, magari su un terzo nome più gradito al partito.
Aspettiamoci dunque uno scontro lungo, lacerante, dagli esiti incerti e potenzialmente distruttivi per il partito repubblicano. La crisi del G.O.P. è del resto segnata nella parabola politica di Marco Rubio, che dopo la sconfitta in Florida, lo Stato di cui è senatore, ha deciso di ritirarsi. 44enne, di belle speranze, Rubio era il candidato su cui il partito aveva scommesso tutto, per essere l’alternativa conservatrice e il successorie di Barack Obama. Nella notte in cui ha detto un triste addio ai suoi sogni di gloria, Rubio ha anche ammesso la crisi del partito e le incognite del futuro.
Ha detto: “L’America è nel mezzo di una tempesta politica – di un vero tsunami. Avremmo dovuto vederlo arrivare”.
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