I Violent Femmes sono una specie di definizione enciclopedica di “gruppo di culto”. Il loro disco d’esordio, Violent Femmes, uscito nel 1983, è un caposaldo assoluto del folk punk, un genere che il gruppo guidato da Gordon Gano, insieme agli irlandesi Pogues, ha contribuito a creare. Il loro disco più recente, Freak Magnet, era uscito nel 2000. Nel 2009 sembrava poi che la storia dei Violent Femmes fosse finita per sempre, con il bassista Brian Ritchie impegnato a fare causa a Gordon Gano in seguito alla concessione da parte del cantante di “Blister in the sun”, una delle loro canzoni più celebri, per uno spot della catena di fast food Wendy’s. Dal 2013 in poi però la band aveva ripreso l’attività live.
We can do anything, il nuovo disco dei Violent Femmes, è stato pubblicato il 4 marzo 2016. E noi abbiamo raggiunto Gordon Gano al telefono per chiacchierare con lui di questo lavoro e farci raccontare qualche retroscena.
Il disco che abbiamo davanti agli occhi, We can do anything, è il primo disco dei Violent Femmes dopo circa 15 anni. Evidentemente siamo molto curiosi di chiederti come avete affrontato il lavoro su questo nuovo album…
Direi che l’approccio è stato il medesimo della maggior parte dei nostri dischi precedenti, direi di praticamente tutti i nostri dischi. Sono album, e anche questo lo è, che abbiamo principalmente registrato live in studio: ci mettiamo lì, io suono e canto, e gli altri suonano con me. Siamo da sempre convinti che nel corso di una registrazione live possa succedere qualcosa di speciale e inatteso, che ci sia questa energia, questa tensione positiva. Poi ovviamente non siamo puristi, c’è sempre qualcosa che si può cambiare a posteriori, ma sicuramente We can do anything è soprattutto un disco registrato live, ci sono solo tre canzoni che invece hanno avuto una genesi diversa, costruite nel tempo, con tante tracce sovrapposte. Alla fine l’origine dell’album è stata molto simile a quella del nostro primo disco: anche le canzoni in cui eravamo in tanti a suonare, in una ad esempio eravamo in sette, siamo riusciti a registrarle ognuno trovando il proprio angoletto in studio e suonando tutti insieme.
Prima di questo disco avete fatto un bel po’ di concerti da quando avete riformato la band: quanto hanno influito questi live sulla storia dell’album?
Sicuramente suonare live è stato cruciale per la realizzazione dell’album, principalmente perché erano diversi anni che non suonavamo insieme, ci siamo ritrovati a farlo perché il Festival di Coachella ci aveva fatto una bellissima offerta per averci. E una volta che siamo finiti su quel palco ci siamo accorti di come suonassimo ancora bene e di come il pubblico fosse felice di vederci, è stato divertente e piacevole. Così siamo andati avanti e abbiamo iniziato a parlare di fare un nuovo disco, e poi a lavorare sui pezzi.
Come ricordi quel primo concerto? E’ stato facile dall’inizio, fin dalla prima canzone, tornare sul palco per i Violent Femmes?
Sì, assolutamente sì. Ma ti dirò: anche dalla prima prova che abbiamo fatto insieme, un paio di giorni prima del Festival, immediatamente ci siamo ritrovati addosso il nostro suono, quello che sia noi che il nostro pubblico conosciamo così bene e che ci rende i Violent Femmes. E la stessa cosa è accaduta anche sul palco: è semplicemente successo, infatti appena finito il concerto ci siamo detti come fosse bello ritrovarsi in modo così immediato.
Uno dei punti di forza da sempre dei Violent Femmes è in effetti questo suono così personale e immediatamente riconoscibile. Ma oltre a essere bello ritrovarlo immediatamente, può anche diventare una preoccupazione, un vincolo, il dover sempre suonare in quel modo?
No, non mi preoccupo affatto di tutto questo, mentre invece penso che Brian Ritchie, il nostro bassista, in effetti ci pensi un po’ di più di me. Però anche per quello che riguarda lui e il suo modo di suonare, si tratta di qualcosa che accade molto naturalmente. Lui ha sempre usato principalmente il basso acustico, e quello è lo stile con cui lo suona, non ce n’è un altro, questa è già una parte essenziale del nostro suono. Io invece so cantare solo in questo modo, ovviamente questo c’entra anche con la maniera in cui scrivo le mie canzoni, e altrettanto si può dire dello stile con cui uso la chitarra: è tutto molto naturale. L’unico aspetto su cui ti direi che abbiamo fatto delle scelte consapevoli per salvaguardare un certo suono ha riguardato la batteria: il nostro primo batterista, Victor DeLorenzo, ha sempre suonato quasi esclusivamente con le spazzole, molto spesso stando in piedi. Da quando Victor non è più nella band, abbiamo mantenuto questa idea di un batterista che suona in piedi e quasi sempre con le spazzole. In effetti questa è stata una scelta che abbiamo preso, anche perché ci sono state diverse persone che hanno incarnato questo ruolo nel gruppo. In ogni caso, come dicevo anche prima sul registrare live, non siamo dei puristi, per cui in questo disco ci sono anche stili batteristici diversi. Per il resto ci siamo io e Brian Ritchie a suonare come abbiamo sempre fatto.
Ho letto che per scegliere le canzoni da inserire in We can do anything hai aperto il tuo archivio e ti sei messo a sentire vecchie cassette registrate anni fa, ripescando brani che erano stati scartati dai dischi precedenti: è vero?
Sì, è vero. Non ho mai pensato però che fossero pezzi che non avessero superato una selezione, semplicemente perché molte di queste canzoni non hanno mai nemmeno avuto la possibilità di essere incise, e questo perché erano davvero troppe. Tecnicamente però sì, hai ragione. Il fatto è che mi è sempre capitato di scrivere pezzi e poi di dimenticarmene totalmente: così a un certo punto mi sono detto che non aveva senso che mi appuntassi le idee musicali solo su un bloc notes, perché questo avrebbe voluto dire perdere molto di quel materiale. Alla fine mi sono ritrovato con una enorme borsa piena di cassette, capaci di testimoniare circa tre decadi del mio lavoro. Anni dopo mi sono reso conto di come avrei dovuto fare un archivio digitale di questo materiale per poi poterlo riascoltare facilmente, senza correre il rischio che quelle cassette diventassero inutilizzabili. In effetti riascoltare queste canzoni è stato utile per fare il disco, ci sono almeno un paio di pezzi che hanno circa 25 anni, mentre chiaramente molte altre sono più recenti, non ho avuto bisogno di riascoltarle per sapere che c’erano.
Ma in questi anni ti era mancato il registrare un disco con i Violent Femmes?
[Ride, ndr] Mi verrebbe da chiederti se posso essere sincero, ma questo significherebbe far pensare a qualcuno che finora non sono stato sincero, mentre lo sono stato. Ma la risposta è no, non mi è mancato per niente il fare un disco con questa band! Il processo che affrontiamo per fare un disco è decisamente qualcosa di cui non potrò mai sentire la mancanza, anche se poi devo dire che sono sempre molto felice del risultato finale. Immagino che qualcuno potrebbe pensare che, visto che registriamo live, il lavoro in studio sia questione di pochi giorni, che quindi non ho motivo per lamentarmene, ma come prima cosa non è mai davvero così. Soprattutto però devo dire che io non amo affatto stare in studio: mi piace il momento della musica, adoro suonare, sono molto felice una volta che il disco è pronto e ascolto il frutto dei nostri sforzi. Ma il processo è molto faticoso, perché in generale non siamo mai d’accordo su nulla, ed è proprio per questo che è passato così tanto tempo dal nostro ultimo disco, perché quando ci incontriamo fondamentalmente finiamo per litigare!
Questo significa che questo disco ce lo dobbiamo godere e farcelo bastare, perché se ce ne sarà un prossimo sarà tra altri quindici anni?
Guarda, in realtà non direi, ora che abbiamo fatto questo c’è una buona probabilità che finiremo per farne un altro. Perché se ce l’abbiamo fatta questa volta, possiamo riuscirci ancora. Però se mi ci fai pensare con questa tua domanda, mi trovo a riflettere su come sarei molto felice di veder uscire un nostro nuovo disco, ma non ho per nulla voglia di rimettermi ad affrontare il processo necessario a farne un altro. Il desiderio di fare un altro disco c’è, abbiamo tantissime canzoni da parte, ci sono voluti molti anni per fare questo album e quindi ora abbiamo risolto almeno una parte dei nostri problemi a riguardo. Sono ottimista, diciamo così. Io e Brian abbiamo deciso insieme di chiudere questo disco con una canzone che si intitola I’m not done, non ho ancora finito. Credo che questo sia un buon segnale per il futuro.
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