Babak Zanjani non è il primo uomo d’affari iraniano condannato a morte per appropriazione indebita di miliardi di dollari, perché nel maggio 2014 era già stato impiccato Mahafarid Amir-Khosravi. Condannato anche lui a morte con l’accusa peggiore, quella di “corruzione sulla terra”, Zanjani era stato arrestato il 30 dicembre 2013 per essersi messo in tasca 3 miliardi di dollari. Proventi della vendita di petrolio, aggirando il regime di sanzioni internazionali contro l’Iran. Zanjani potrà fare appello, per ora il suo caso fa notizia.
Con 14 miliardi di dollari, a 42 anni Babak Zanjani è probabilmente l’uomo più ricco dell’Iran. Aerei privati e auto di lusso: una ricchezza esibita senza pudore. Ha avuto un ruolo importante durante la presidenza di Ahmadinejad nell’aggirare l’embargo petrolifero per conto del governo iraniano, per questo dal 2012 è nella lista nera di Stati Uniti e Unione Europea. Da Dubai, la sua holding Sorinet controlla 65 società coinvolte in tanti affari diversi: dai cosmetici ai viaggi aerei alle banche, di cui è proprietario o azionista. Società operative in molti paesi: dalla Turchia alla Malesia all’Uzbekistan. Gli affari di Zanjani non finiscono qui, perché si è anche comprato una squadra di calcio (iraniana).
Nel 2013, quando Ahmadinejad cede la poltrona a Rohani, inizia, a Teheran, la campagna “mani pulite”. L’obiettivo del nuovo presidente, moderato e pragmatico, è – fin dall’inizio – mettere fine alle sanzioni internazionali e far ripartire l’economia. Per restituire credibilità al paese, dove il 70 percento dell’economia è in mano allo stato (e quindi alle fondazioni religiose e ai pasdaran), Rohani deve dichiarare guerra alla corruzione. Per questo motivo il presidente e il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh chiedono con insistenza agli investitori stranieri di non fare uso di intermediari.
Nella versione iraniana di “mani pulite” finisce anche Zanjani. Nato a Teheran, frequenta l’università in Turchia dove fa i soldi vendendo pelli di pecora, ma viene accusato di corruzione. Rientra a Teheran, per diventare nel 1999 l’autista del capo della Banca Centrale iraniana e occuparsi di tassi di cambio. Una carriera in rapida ascesa, al servizio della Repubblica islamica, tant’è che il suo soprannome è basij economico, laddove basij in persiano vuol dire miliziano.
Forse, dichiara l’avvocato difensore, Zanjani è il capro espiatorio di una serie di conti da pagare, tra pragmatici e conservatori, all’indomani delle elezioni. Da parte sua, il miliardario si difende dicendo che non è colpa sua: sono state le sanzioni internazionali a impedirgli di accreditare oltre 1.2 miliardi di dollari sui conti della Repubblica islamica. Conti che però non tornano, visto che la magistratura chiede con insistenza la restituzione di una cifra ben superiore, ovvero oltre 2.7 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio.