Mentre la ministra Giannini segnava uno dei più clamorosi autogol comunicativi di sempre, mentre i giornali tornavano a riempire le loro pagine di storie di “cervelli in fuga”, mentre un giovane ricercatore italiano veniva torturato e ucciso facendo il suo lavoro di ricerca, il Parlamento italiano prorogava la silenziosa “guerra” ai suoi ricercatori. L’ultimo atto è stato la mancata estensione del sussidio di disoccupazione ai ricercatori precari.
È a questo punto che in decine di università sono comparse le magliette rosse dello sciopero alla rovescia della ricerca precaria. Sono coloro che restano a fare ricerca in Italia nonostante l’Italia faccia di tutto per spingerli altrove.
L’ultimo incentivo a lasciare il Paese è arrivato il 15 dicembre 2015, quando la commissione Bilancio della Camera ha bocciato l’estensione dell’indennità di disoccupazione (Dis-Coll) agli assegnisti di ricerca, ai dottorandi e ai titolari di borse di studio, nonostante versino i contributi alla gestione separata dell’Inps. Con quale motivazione? Tenetevi forte: quello del ricercatore non è un vero lavoro perché “fortemente connotato da una componente formativa”. È il ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti a spiegarlo rispondendo a una interrogazione della Cgil. A metà gennaio rincarava la dose il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, del Pd: “Tali soggetti svolgono attività non riconducibili alle collaborazioni coordinate e continuative”. Sommerso dalle critiche il giorno dopo ha precisato, smentendosi: “Ci assumiamo l’impegno di prevedere adeguati ammortizzatori sociali di cui possano beneficiare al termine del loro rapporto con l’ateneo. Perché la ricerca è lavoro vero”. Bingo.
Un lavoro vero, la ricerca, in Italia. Ma quale lavoro?
La storia di Paola, ma potrebbe chiamarsi Claudia, Mauro, Giovanna, è emblematica: dopo dieci anni di lavoro precario nelle università, passate le varie fasi della ricerca, fatte le esperienze all’estero, ricevuto premi e incentivi, ecco, dopo dieci anni Paola si ritrova disoccupata. Con quale prospettiva? Un concorso per un posto da 2.000 euro l’anno, ha raccontato al microfono di Silvia Giacomini…
Sigle, ruoli e contratti diversi, raccomandazioni, pochi soldi. Il governo italiano nel 2015 ha destinato 6,9 miliardi all’Università, pochi se confrontati con i 26 della Germania. Più in generale negli ultimi sette anni c’è stato un disinvestimento in ricerca e formazione, meno 22 per cento secondo un rapporto della Fondazione Res. È lo Stato il primo a non credere nella ricerca e nei sui ricercatori. La varietà di contratti, di ruoli, di sigle usate per inquadrare chi lavora negli atenei, pare fatto apposta per mantenere un sistema da gioco dell’oca, dove basta un tiro di dadi sfavorevole per ritrovarsi alla casella di partenza.
È così che la ricerca italiana è diventato un tetris impazzito e precario. Problemi e storture di sempre si sono sommate a riforme inadeguate. “Paghiamo ancora la riforma Gelmini del 2008”, spiegano i ricercatori. Quella che produsse l’ultima protesta diffusa, e di piazza, del mondo della scuola, l’Onda.
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Oggi i ricercatori e le ricercatrici hanno scelto di fare uno sciopero alla rovescia, ispirandosi a quanto fatto nel 1956 da Danilo Dolci. Così hanno fatto incrociare le braccia su una maglietta rossa a un ricercatore e a una ricercatrice, per rendere visibile chi fa cosa dentro l’Università. Basterà? Probabilmente no, ma è un primo passo per uscire dall’invisibilità. “Sono coloro che svolgono attività funzionali, necessari, vitali all’andamento dell’Università”, dice Chiara Martucci, ex ricercatrice, oggi collaboratrice della Statale di Milano e tra le responsabili degli sportelli dei ricercatori precari della Flc Cgil. L’intervista è di Silvia Giacomini:
Il sito internet dei ricercatori non strutturati lo trovate qui, la loro pagina Facebook qui, quella milanese qui.
Le foto sono tratte dalle pagine Facebook della campagna.