Abitazioni meravigliose affacciate sull’oceano Pacifico, nella stupefacente costa californiana. Scuole all’avanguardia e a perfetta misura pedagogica di bambino, ovviamente private. Belle auto e grossi SUV, aree urbane curatissime, bar e ristoranti all’ultimo grido.
Sembra facile inquadrare l’esclusiva cittadina di Monterey con un solo sguardo: enclave del ricchissimo 1% della popolazione, colpita al massimo da risibili problemi da primo mondo. Questa è la superficie di Big Little Lies, produzione HBO che nel 2017 ottenne negli Stati Uniti un successo incredibile di pubblico e di critica, vincendo 8 Emmy Award su 16 nomination, e 4 Golden Globe: adattamento del bestseller Piccole grandi bugie di Liane Moriarty, con la sceneggiatura di David E. Kelley (veterano del piccolo schermo dai tempi di Boston Legal e Ally McBeal) e la regia del candidato all’Oscar Jean-Marc Vallée, attirava, oltre che per l’ambientazione, perché nel cast riuniva tre grandissime attrici, Nicole Kidman, Reese Witherspoon e Laura Dern, oltre alle giovani star Shailene Woodley e Zoe Kravitz.
Kidman e Witherspoon, anche produttrici, avevano voluto fortemente il progetto, perché sotto la superficie patinata da casalinghe disperate in versione extralusso, Big Little Lies parla di argomenti serissimi: di violenza domestica e di stupro, delle conseguenze a irrefrenabili cerchi concentrici che ogni atto di violenza può suscitare, di come proprio una comunità ossessionata dall’apparenza possa seppellire tutto dietro le porte di elegantissime ville o sorrisi di cortesia.
Soprattutto la vicenda di Celeste, il personaggio interpretato straordinariamente da Nicole Kidman, riusciva a raccontare una lunga storia di abuso in modo sfumato e per nulla banale: sia per come tratteggiava dinamiche tossiche inserite nella quotidianità, sia per come metteva in scena il delicato confronto con una psicoanalista e il duro processo di affrancamento da una relazione malata.
Big Little Lies avrebbe dovuto essere una miniserie: nei suoi 7 episodi esauriva il materiale letterario e lasciava gli spettatori con una chiusura catartica. Ma l’enorme successo e soprattutto la possibilità di far lavorare ancora insieme una squadra eccellente e già rodata ha portato HBO a produrre una seconda stagione, dal 18 giugno su Sky Atlantic: in mancanza di un altro romanzo, la scrittrice Liane Moriarty è stata direttamente assoldata per collaborare con lo sceneggiatore Kelley al proseguimento delle storie di Madeline, Celeste, Renata, Jane e Bonnie. E visto che Vallée era impegnato a girare la miniserie Sharp Objects, alla regia è arrivata Andrea Arnold, grandissima cineasta indipendente di origini britanniche, autrice di film come Fish Tank, Cime tempestose e American Honey.
Ma il vero colpo grosso il network l’ha fatto ingaggiando Meryl Streep, l’attrice che detiene il maggior numero di candidature all’Oscar della storia del cinema (21; ne ha vinti 3). Al centro della prima stagione c’era un misterioso omicidio, attorno a cui si orchestrava la narrazione: i cittadini di Monterey venivano interrogati e raccontavano come un coro greco le storie delle protagoniste, ma fino all’ultimo il pubblico non sapeva la verità, né chi fosse morto. All’inizio di questa stagione, invece, sappiamo già tutto: il cuore di questa annata diventa così il trauma di quella morte da elaborare, ultimo di tanti piccoli e grandi rimossi di intere esistenze. In un certo senso, è una sfida ancora più difficile, che non vediamo l’ora di seguire.
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