Lo si sapeva, lo si aspettava. Nel 2015 la crescita dell’economia cinese è stata la più bassa degli ultimi 25 anni: 6,9 per cento, cioè meno di quei 7 punti percentuali posti come obiettivo all’inizio dell’anno scorso. Si pensi che nel 1990, quando il Pil si fermò al 3,8 per cento, il Paese aveva appena assistito al fuggi fuggi degli investimenti stranieri a seguito dei fatti di Piazza Tian’anmen. E infatti l’economia si riprese immediatamente l’anno successivo (9,2). Se poi si osserva la serie storica, emerge che dal 2003 in poi il Pil cinese ha viaggiato costantemente a doppia cifra tranne che nei due anni maledetti della crisi finanziaria globale – il 2008 e il 2009 – quando si attestò comunque sopra al 9 per cento nonostante il calo degli ordini manifatturieri. Dal 2011 in poi, invece, si scende inesorabilmente sotto il 10 per cento: 7,7 per due anni di fila, poi 7,4, infine il 6,9 di oggi. Il calo è strutturale.
La leadership cinese lo chiama xin changtai, “nuovo normale”, formula rassicurante che indica una crescita meno quantitativa e più qualitativa. Così, i dati di oggi erano stati preannunciati l’autunno scorso dal premier Li Keqiang che, annusando un terzo trimestre non proprio all’altezza delle aspettative, aveva sancito che una crescita “attorno” al 7 per cento sarebbe stata comunque sufficiente se avesse creato abbastanza posti di lavoro. Anche diciotto economisti di grido, intervistati ieri da Agence France-Presse, avevano azzeccato il 6,9 per cento, mentre il presidente Xi Jinping ha detto che nonostante la crescita rallentata e la volatilità dei mercati finanziari, i fondamentali economici di lungo periodo sono solidi.
L’economia cinese ha rallentato proprio con l’avvento dell’attuale leadership (2012) e in coincidenza con il tentativo di passare da un modello trainato da esportazioni e investimenti a uno basato invece su consumi domestici e servizi. Basta “fabbrica del mondo”, è necessario diventare economia evoluta. Ne scaturisce un’interpretazione che rimanda alla famosa storia dell’uovo e della gallina: l’economia rallenta perché c’è questa transizione in corso o la transizione è stata resa necessaria dal rallentamento dell’economia? Fatto sta che a questa transizione guarda il mondo intero, perché la buona salute dell’economia cinese è considerata un driver per la crescita globale. Va detto che ormai il settore dei servizi rappresenta il principale motore della crescita, ma il punto è capire se sarà in grado di compensare il rallentamento sempre più strutturale del settore industriale tradizionale. È un gioco a rincorrere.
Non aiuta a comprendere lo snocciolamento dei dati “secondo caratteristiche cinesi”. Nell’ultimo trimestre 2015, una vasta categoria denominata “altri servizi” aveva registrato un discreto incremento. Tecnicamente dovrebbero comprendere assistenza sanitaria, istruzione, settore legale e della contabilità: tutte quelle voci, cioè, che definiscono servizi ad alto valore aggiunto. Ma la mancanza di specificità crea scetticismo in parecchi osservatori, con il sospetto che i funzionari cinesi trucchino i dati per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Non dovrebbero invece intimorire i recenti rovesci di Borsa. A detta di molti, i mercati finanziari cinesi sono ancora troppo sganciati dall’economia reale per essere un valido indicatore della salute economica complessiva. Ma un nesso comunque c’è. L’anno scorso, il boom delle Borse avvenuto tra fine 2014 e giugno 2015 ha spinto in alto tutti i servizi di intermediazione e brokeraggio, voce viva del Pil. Posto che questa spinta sembra essersi esaurita, che contributo darà questo settore alla crescita futura?
Il manifatturiero intanto sembra essersi leggermente ripreso nell’ultimo trimestre. La produzione industriale aveva toccato il fondo a ottobre, per poi risalire notevolmente a novembre. I dati mensili diffusi oggi sono controversi. A dicembre, la produzione è aumentata del 5,9 per cento rispetto a un anno fa, le vendite al dettaglio dell’11,1 e gli investimenti del 10 per cento. Per molti economisti sono dati al di sotto delle aspettative. Il rischio è che il governo cinese scelga di sostenere la crescita con un nuovo pacchetto di stimoli in settori tradizionali – l’industria pesante, il cemento, l’acciaio, le grandi imprese di Stato – mantenendo il ritmo nel breve periodo ma diluendo ulteriormente nel tempo la transizione verso un’economia più efficiente. Ieri, quando il presidente Xi Jinping ha parlato di fondamentali economici solidi, si rivolgeva a una platea di alti funzionari, con ampia delegazione dalle province. Non è un caso, perché la transizione cinese passa anche e soprattutto dall’efficienza dei distretti regionali, dove si annidano interessi particolari, nemici del cambiamento.